martedì 18 settembre 2012

LESIONI DI MODESTA ENTITA' E DANNO MORALE


E’ noto come le compagnie di assicurazione in via stragiudiziale siano restie a liquidare il danno morale relativamente alle lesioni di piccola entità.
Apoditticamente i liquidatori assumono che la recente giurisprudenza di legittimità ne escluderebbe la risarcibilità; nella migliore delle ipotesi eccepiscono che il danno da sofferenza non risulta provato.
Si tratta nuovamente  di una tesi errata e capziosa sostenuta  a mero fine defatigatorio; comportamento che, in ogni caso da i suoi frutti, atteso che per “sfinimento”  e per economia, molto spesso i danneggiati rinunciano ad agire in giudizio per vedersi riconosciuta questa voce di danno, tenuto conto anche dell’entità modesta dei ristori.
In diritto le cose stanno diversamente.
Non si può, in materia,  non partire dalla nota sentenza della  Corte di Cassazione a Sezioni Unite dell’ 11 Novembre 2008 n. 26972 ed alle  successive sentenze di legittimità, le quali si sono  pronunciate sulla vexata quaestio  della “struttura” del danno non patrimoniale, con particolare riferimento al danno morale ed esistenziale.
L’esistenza del danno da sofferenza (danno morale), termine non inteso a descrivere  una autonoma categoria di danno, ma a rappresentare, sotto il profilo lessicale, un aspetto importante del più complesso danno non patrimoniale, non è stato  certamente  messo in dubbio dalle Sezioni Unite
Infatti si legge nella nota sentenza:    Nell’ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula “danno morale” non individua una autonoma sottocategoria del danno ma descrive, tra i vari possibili danni non patrimoniali, un tipo di pregiudizio costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini dell’esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento.
La Corte esplicitamente riconosce l’esistenza di un pregiudizio “da sofferenza” che deve essere considerato e ristorato nella sua integrità.
Le Sezioni Unite condividono e fanno propria la lettura, costituzionalmente orientata, data dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 all’art. 2059 c.c. (par. 2.2).
La lettura della sentenza delle Sezioni Unite non ha introdotto, quindi,  elementi di novità nella parte in cui ammette la rilevanza di ogni sofferenza, fisica, psichica, transitoria o permanente patite dalla vittima; in questo senso, viene superata la figura del cosiddetto danno morale soggettivo transeunte.
Dicono infatti le Sezioni Unite:
“La sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra il pregiudizio non patrimoniale. Deve trattarsi di un turbamento dell’anima, di un dolore sofferto, che non abbia generato degenerazioni patologiche della sofferenza.”  
Assolutamente non condivisibile, in quanto illegittima, risulta dunque essere l’impostazione assunta dalle compagnie di assicurazione che, uniformemente, si rifiutano di risarcire il danno morale in presenza di lesioni micropermanenti; ciò soprattutto se si considera che la Corte di Cassazione, Sez.III, con ordinanza del 17/09/2010 n.19816, ha espressamente riconosciuto la risarcibilità del danno morale anche per le micropermanenti.
Assume la Corte :  
“La parte danneggiata da un comportamento illecito che oggettivamente presenti gli estremi del reato ha diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali, ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., i quali debbono essere liquidati in unica somma, da determinarsi tenendo conto di tutti gli aspetti che il danno non patrimoniale assume nel caso concreto (sofferenze fisiche e psichiche; danno alla salute, alla vita di relazione, ai rapporti affettivi e familiari, ecc.)”.
In punto prova del danno morale  è bene precisare che la sofferenza derivante da una lesione fisica, sia pure di non grave entità può essere provata con riferimento all’ “id quod plerumque accidit”, ovvero in modo presuntivo,  come del resto la giurisprudenza di legittimità e di merito ha sempre riconosciuto.
In questo senso la richiamata sentenza delle Sezioni Unite ha ribadito che, se pure il danneggiato deve offrire la prova del danno lamentato, detta prova può essere data con ogni mezzo, ivi comprese le presunzioni semplici.
Si legge infatti nella sentenza: la “la prova presuntiva è destinata ad assumere particolare rilievo e potrà costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri”
E’ evidente che il giudicante potrà evincere elementi di prova, in ordine alla sofferenza del danneggiato, dal solo esame della certificazione attestante il protrarsi della malattia o dalla circostanza che il lesionato si sia dovuto sottoporre a cure fisioterapiche e riabilitative.
E’ infatti noto a tutti che da una lesione fisica, sia pure di modesta entità derivi sempre, quale conseguenza immediata, al di là del dato clinico, l’insorgenza di sofferenza fisica.
La distrazione del rachide cervicale comporta, oltre che una riduzione fisiologica dei movimenti del capo e delle spalle, capogiri, emicranie, sensi di nausea, dolore al collo ecc.
Da un punto di vista pratico, la dimostrazione del danno morale si risolve di fatto, nella prova del danno biologico e dei fatti che, sempre sotto il profilo del danno biologico, hanno avuto luogo in seguito alle lesioni: periodi di degenza, cure, trattamenti medici e fisioterapic (G.di P. di Bari n.8898/2010).
Il giudice può dunque sempre  considerare provato il danno sulla sola scorta della  documentazione prodotta in causa e con ricorso al principio del “id oquod plerumque accidit” .
In ogni caso è bene sempre svolgere una minima attività istruttoria indicando al giudice dei soggetti,  (il più delle volte parenti) che possano testimoniare sullo stato di malessere e sull'abbattimento morale patito dal lesionato, al massimo il giudice non ammetterà la prova ritenendo che il danno morale sia scontato.
Una volta chiarito, in via di principio, che il danno da sofferenza debba essere oggetto di specifica liquidazione al fine dell’ integrale ristoro del danno , occorre, fare qualche osservazione in ordine alle apparenti imitazioni che il CdA (artt.138-139) sembra disporre in ordine alle lesioni tabellate entro il 9%. Le norme stabiliscono infatti che la personalizzazione del danno non può eccedere il 20% oltre quanto liquidato in base alle tabelle.
 
In punto si è pronunciata la Corte di Appello di Torino con la sentenza n. 1315/2009 del 5 Ottobre 2009
La Corte Torinese  non condivide quella l’interpretazione dottrinale secondo cui il danno da sofferenza, patito nel caso di lesioni al di sotto del 9%, debba essere liquidato nel limite di un quinto (20%) del danno biologico.
Infatti: ” La corte non ritiene corretta la lettura di norme di diritto positivo elaborate in un contesto storico e sistematico che si riferiva al solo danno alla vitalità biologica medicalmente accertato, e non già al pregiudizio della integrità morale della persona” (pag.58 della citata sentenza)
In buona sostanza la Corte ritiene non applicabile la restrizione normativa del Codice delle Assicurazioni in quanto la norma è precedente alla sentenza delle Sezioni Unite, in un periodo in cui il danno morale era ritenuto autonoma categoria risarcitoria da sommarsi al danno biologico.
In tal senso si è pronunciato anche il Tribunale di Torino (sentenza emessa in data 17/3/09 dal Dott. Ciccarelli):  “Va osservato che qualora la lesione biologica non superi il limite del 9% la valutazione e liquidazione del danno da sofferenza mediante un aumento del valore punto, non è praticabile, poiché tale valore, è fissato dalla legge.
E non è evidentemente sostenibile che i valori siano fissati dal legislatore già tenendo conto della sofferenza; poiché il consolidato orientamento della giurisprudenza di merito e di legittimità era nel senso che la sofferenza dovesse essere ristorata “ a parte” attraverso il riconoscimento del danno morale.
Ogni diversa interpretazione presterebbe il fianco a censure di illegittimità costituzionale, in quanto precluderebbe, nei casi rientranti nella previsione dell’art. 139 CdA, l’integrale ristoro del danno alla persona.
D’altra parte non è plausibile, a fronte di definizioni normative del danno biologico identiche (tali sono quelle dell’art.138, 2° comma e dell’art. 139 2° CdA ) , che si ritenga escluso da tale nozione il danno da sofferenza per le lesioni macropermanenti e lo si ritenga invece incluso per le micropermanenti.
Né la più volte citata sentenza delle Sezioni Unite definisce il danno non patrimoniale in modo diverso a seconda dell’entità della lesione; al contrario, lo definisce in termini unitari e comprensivi, sempre, del danno da sofferenza fisica e psichica ( la cui entità e durata nel tempo, precisa la Corte, non assumono rilevanza ai fini dell’esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento).
Alla luce di tali considerazioni si ritiene che, anche nel caso di lesioni micropermanenti, possa ( non già debba) esistere un pregiudizio da “sofferenza”, non incluso nella liquidazione effettuata mediante i criteri dettati dall’ art. 139 CdA.
Tale pregiudizio consiste nel patimento interiore causato dall’illecito: sia per il turbamento e per i disagi che esso ha in concreto comportato, sia per le privazioni cui ha costretto la vittima.
E la sua dimostrazione potrà essere data mediante prova documentale, testimoniale o presuntiva, assumendo proprio quest’ultima particolare rilievo, e potendo anzi costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice”.
 
Pertanto quando il danneggiato è in grado di provare di aver patito un danno da sofferenza morale o esistenziale di particolare rilevanza, il giudice potrà liquidare una somma che vada oltre al tetto del 20% su quanto liquidato per il danno biologico.
Si può fare il seguente esempio.
Se il danneggiato è un pianista o violinista dilettante ed ha subito una lesione ad un dito che non gli consente più di suonare, sarà risarcito per il danno biologico in base alle tabelle e per il danno da sofferenza morale ed esistenziale in via equitativa. Il giudice, per stabilire in modo equo l'importo del risarcimento dovrà tenere conto dell'importanza che assumeva per il danneggiato il suonare uno strumento, come questa sua attività si rifletteva nel suo "quotidiano" anche a livello sociale e relazionale.
In buona sostanza siccome ognuno di noi è diverso, ha le sue inclinazioni, le sue aspirazioni, le sue relazioni, è giusto che il risarcimento sia personalizzato perchè la sofferenza e l'impatto sulla vita privata familiare e relazionale non è uguale per tutti.
Al di là, dunque, delle rigide ingessatire pensate dai nostri legislatori  per calmierare i risarcimenti, compito dell'avvocato sarà sempre  quello di mettere in luce le singole situazioni, mentre spetterà al giudice coscienzioso apprezzarle ai fini del risarcimento. 
 
Avv. Luigi Riccio
 
 

lunedì 17 settembre 2012

ANCORA SULLA LESIONE DA "COLPO DI FRUSTA"

In ordine alla incostituzionalità delle norme contenute nell'art.139 CdA, così come novellato recentemente, ho già avuto modo di esprimermi.
Tuttavia   non va trascurato un altro aspetto della questione che vede contrapposti da un lato gli interessi delle compagnie di assicurazione, dall'altro le legittime aspettative di diritto dei cittadini.
Come già accennato nel precedente post, gli assicuratori intendono applicare retroattivamente la Legge  27/2012 entrata in vigore il 25 marzo 2012, nel tentativo di sottrarsi al  risarcimento dei danni da lesioni di lieve entità (prevalentemete colpi di frusta) occorsi al danneggiato prima dell'entrata in vigore della norma in questione.
L'operazione, che ha avuto il benestare dell'ISVAP, in parte riuscirà perchè molti danneggiati per non intentare causa alla compagnia di assicurazioni, rinuncerà ai suoi diritti.
Il comportamento degli assicuratori ricalca quello già dagli stessi messo in essere relativamente alla questione del risarcimento del danno morale conseguente a lievi lesioni personali.    
Praticamente la questione si pone in questi termini.
I medici legali delle compagnie di assicurazione su istruzione delle società assicuratrici, non riconoscono il danno biologico permanente ai danneggiati che hanno subito lesioni da incidente stradale in un periodo antecedente all'entrata in vigore della Legge 27/2012.
Ciò avviene principalmente per il fatto che i danneggiati, che al tempo del sinistro non sapevano di dover "documentare strumentalmente la lesione", sono evidentemente  sprovvisti della idonea documentzione (radiografie-risonanze ecc.).
Non vi è chi non veda che la metodologia applicata è palesemente ingiusta.
Dal punto di vista del diritto è indubbiamente illegittima.
Infatti, come è a tutti noto, vige in dirtto il principio della irretroattività delle norme, ovvero il principio secondo cui la legge nuova non si può applicare che per giudicare i fatti accaduti  a decorrere dalla sua entrata in vigore.
In materia si può fare riferimento ai seguenti principi elaborati dalla dottrina e dalla giurisprudenza: 
 
a)   Principio della non retroattività delle norme  
      Secondo questo principio generale che trova il suo fondamento nell’art. 11, comma 1 delle disp. prel. del C.C.  “la legge non dispone che per l’avvenire, non ha effetto retroattivo”.
Si tratta di un principio mutuato dal diritto romano ed  assimilato nel nostro ordinamento per esigenze di certezza del diritto.
Ancora l’art. 14 delle disp.prel. C.C. sancisce che :”le leggi …… che fanno eccezione a regole generali…non si applicano oltre i casi ed i tempi in essi considerati.”
Peraltro, il principio della non retroattività vige anche nel caso in cui la nuova norma abroghi la precedente; infatti solo la pronuncia di “incostituzionalità” di una norma ne cancella ogni effetto, avendo, appunto, effetto ex tunc (Cass.civ. 9/09/1996 n.8186); nel caso in esame la questione verte sull’applicazione di norme nuove, con le evidenti conseguenze.
Il principio della irretroattività della legge, espresso anche dalla formula “tempus regit actum”, è stato chiarito uniformemente dalla giurisprudenza di legittimità, infatti:
“in materia civile vale il principio tempus regit actum, per cui deve essere applicata la normativa in vigore al momento in cui si sono verificati i fatti dedotti in causa “  Cass. 12/10/2006 n.21818.

b)     La teoria dei diritti quesiti
Secondo questo principio, in caso di successione di norme,  sono fatti salvi i diritti che si sono già perfezionati in vigenza della norma sostituita. Nel caso in esame è universalmente noto che il diritto al risarcimento viene ad esistere dal momento in cui si è verificato il danno, naturalmente in presenza di colpa e nesso causale.
Pertanto se al momento dell’evento lesivo la legge non prevedeva restrizioni e limitazioni per il risarcimento del danno da lesione micropermanente, al danneggiato dovrà essere riconosciuto il diritto ad essere risarcito secondo il sistema allora in vigore.

c)      La teoria della irretroattività della legge in presenza di norme sostanziali
In passato, nel caso di assenza di norme transitorie, la Cassazione ha avuto modo di affermare che le norme processuali si applicano a tutte le cause iniziate dopo la loro entrata in vigore;  mentre,  in caso di norme sostanziali, i giudici di Piazza Cavour ne hanno ribadito la irretroattività, con la conseguenza che non possono applicarsi alla casistica verificatasi prima della loro entrata in vigore, anche se l’azione giudiziaria viene esperita  dopo. 
(Cass.11/05/1989 n.2150; Cass. 6/06/87 n.4956; Cass.20/02/82 n. 1084  )

d)    Il principio costituzionale  della tutela dell’affidamento dei cittadini nella  certezza della legge 
      La Corte Costituzionale ha affermato che anche le leggi di interpretazione autentica, che eccezionalmente e per la loro natura meramente interpretativa, hanno effetto retroattivo, devono tenere conto dell’affidamento dei cittadini nella certezza dell’ordinamento, e pertanto nella prassi.
 
      Dagli incontrovertibili principi su esposti e dalle interpretazioni offerte dalla  copiosgiurisprudenza di legittimità, discende in modo evidente che le nuove norme sul danno biologico di lieve entità non possono in alcun modo essere applicate al caso che ci riguarda.  Pensare diversamente, significa non voler tener conto di  consolidati principi e voler piegare il diritto alle esigenze economiche di gruppi di potere.
 
Rinnovo dunque l'invito ai colleghi a resistere in difesa dei cittadini e del nostro ruolo.
 
 
Avv. Luigi Riccio

venerdì 14 settembre 2012

AFORISMA

Per vivere con onore bisogna struggersi, turbarsi, battersi, sbagliare, ricominciare da capo e buttare via tutto, e di nuovo ricominciare e lottare e perdere eternamente
 

giovedì 13 settembre 2012

COLPO DI FRUSTA art.139 CdA (Legge27/2012)

ANCORA UNA LEGGE IN ODORE  DI INCOSTITUZIONALITA'    ED    IN  CONTRASTO 
CON LA  CONVENZIONE   EUROPEA  PER   LA SALVAGUARDIA DEI  DIRITTI  DELL'UOMO
Si tratta della Legge 27/2012 che ha novellato l'art. 139 del Codice delle Assicurazioni al fine di rendere più difficoltoso il risarcimento dei danni conseguenti a lesioni di lieve entità, ovvero per l'80% dei danni da distrazione del rachide cervicale (colpo di frusta).
In buona sostanza le compagnie di assicurazione hanno ottenuto dal nostro maldestro legislatore una norma apparentemente finalizzata a contrastare le truffe, ma in realtà utilizzata dalle compagnie stesse al fine di non risarcire i danneggiati. 
Al terzo comma dell'art.139 CdA sono state, infatti, aggiunte le seguenti norme: 
 
Comma 3 ter: “In ogni caso le lesioni di lieve entità, che non siano suscettibili di accertamento clinico strumentale obbiettivo, non potranno dar luogo a risarcimento per danno biologico permanente”.
- Comma 3 quater: Il danno alla persona per lesioni di lieve entità di cui all’art. 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 7/09/2005 n.209, è risarcito solo a seguito di riscontro medico legale da cui risulti visivamente o strumentalmente accertata l’esistenza della lesione”.
 
Le norme si presentano subito contraddittorie;  il comma 3 ter asserisce che non vengono risarcite le lesioni prive di accertamento strumentale, per  il comma quater è sufficiente la risultanza visiva (clinica) in alternativa a quella strumentale (radiografie-risonanze-ecografia ecc.).
Nella prassi  a decorrere da luglio, gli ispettorati di liquidazione danni  hanno avuto disposizione dalle proprie direzioni di contestare sempre la carenza dell'accertamento "strumentale" delle lesioni. Non solo,  le compagnie intendono (a quanto pare con il benestare dell'ISVAP) applicare RETROATTIVAMENTE la Legge 27/2012, con ciò commettendo una  palese "aberratio iuris".
La situazione non è accettabili per uno stato di diritto quale l'italia che deve mirare alla salvaguardia dei diritti dei propri cittadini.  
Poichè si verificherà un notevole aumento del contenzioso, spetterà  ai giudici  farsi carico della corretta interpretazione dell'art. 139 CdA, così come novellato.
A nostro avviso, e questa è l'impostazione che diamo ai nostri atti, il giudice dovrebbe disapplicare il comma tre ter in quanto contrastante con agli artt. 2 e 8, nonché con l’art.1  Prot. n.1 della Convenzione Europea per i diritti dell'uomo.
Infatti gli atti comunitari prevalgono su quelli degli Stati membri, sia per quelli preesistenti all'approvazione della norma comunitaria che per quelli emanati successivamente: si tratta quindi di una priorità ontologica, non temporale. 
Nel caso in esame, a nostro avviso, il giudicante,  chiamato a decidere in base alle  contrastanti norme contenute nell’art. 139 CdA,  potrà non applicare il comma  ter in quanto lo stesso, oltre ad essere in contrasto con il successivo comma quater, contrasta  con i principi contenuti nella Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo ed applicati dalla Corte dei Diritti Umani, non essendo necessario investire la Corte Costituzionale della questione di legittimità costituzionale della disposizione interna in esame.
Solo il comma quater, potrebbe infatti risultare  in linea con i dettami del diritto europeo per la tutela dell’uomo, in quanto si limita ad affermare che le lesioni permanenti devono essere accertate dal medico legale secondo i dettami della scienza medica, clinici, visivi, strumentali che siano.
Il contrasto insanabile della citata legge italiana con le norme contenute nella Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell'Uomo, risulta evidente con riferimento agli artt. 2 e 8, nonché con l’art.1  Prot. n.1.
La tutela della integrità psico-fisica e quella alla attività privata e familiare trovano, infatti, fondamento negli artt. 2 e 8 del testo della Convenzione; non vi è dubbio, infatti,  che la lesione derivante da sinistro stradale, comportante un danno biologico, si riverberi sulla integrità psicofisica e quindi anche sulla attività familiare e sulla vita privata. Analogamente, la negazione del risarcimento, una volta accertato il danno (sia pure non strumentalmente) costituisce lesione al “bene” del soggetto leso, nella larga eccezione elaborata dalla Corte di  Strasburgo con riferimento al concetto di proprietà previsto dall’art. 1 del Protocollo aggiuntivo alla Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo. 
La giurisprudenza della Corte di Giustizia ha infatti prospettato una visione ampia del concetto “bene”, si veda ad esempio la giurisprudenza riguardante il diritto alla  “pensione” . Il diritto al risarcimento, inteso come bene di natura economica, di natura remunerativa e consolatoria rispetto alla provocata  menomazione della salute, non può essere considerato differentemente.
A prescindere dalle suestese osservazioni e relativamente al diritto interno italiano, l’art. 139, comma 3, ter e quater CdA,   risulta essere in palese contrasto con i dettami della costituzione, qualora venisse interpretato nel senso di porre un limite al risarcimento del danno da lesioni permanenti accertate  clinicamente e visivamente e non strumentalmente.
La questione di legittimità, ancor prima della novella di cui si ragiona, è stata sollevata dal Tribunale di Tivoli, in ordine alla formulazione del 139 CdA, con ordinanza del 21 marzo 2012.
Se già la formulazione del 139, nella parte in cui limita la discrezionalità del giudice nel liquidare il danno non patrimoniale, ha creato forti dubbi di costituzionalità, ancor più la recente normativa appare in contrasto con i dettami della Carta.
Non vi è, infatti, chi non veda che limitare la risarcibilità  dei danni fisici, qualora gli stessi si verifichino in occasione della circolazione di veicoli a motore, non è altro che un cadeau alle compagnie di assicurazioni, che mal si attaglia con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza sui quali devono fondarsi le leggi, a pena di incostituzionalità.
Può ritenersi ragionevole che un pedone che cada a causa di una buca del manto stradale, o sia  investito da una bicicletta, possa essere risarcito senza problemi o limitazioni, a differenza di quello investito da un’auto ? 
In termini simili, ovvero sui medesimi dubbi, è stata motivata l’ordinanza di remissione  del Tribunale di Tivoli .
La norma citata dunque appare dunque formulata in violazione dei dettami della Carta Costituzionale e precisamente: 
- dell’art 2 Cost. in quanto le norme oggetto di censura compromettono i diritti inviolabili dei cittadini, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (famiglia);
- dell’art. 3 Cost, in quanto è compito della Repubblica il rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che di fatto limitano la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, e ciò in quanto tutti i cittadini devono poter esercitare gli stessi diritti;
- dell’art. 24 Cost., perché di fatto le norme in esame inibiscono il diritto di accedere avanti all’autorità giudiziaria ai fini di provare, con ogni mezzo consentito dalle norme generali (documenti, prove orali, perizie, presunzioni) il proprio diritto;
- dell’art. 32 Cost. in quanto il diritto alla salute va salvaguardato anche attraverso norme che ne garantiscano la tutela riparatoria, quali quelle relative al risarcimento del danno non patrimoniale.
Quanto al principio di ragionevolezza, al quale occorre sempre far riferimento quando si intende vagliare la tenuta di una norma rispetto all’art. 3 Cost., va rilevato che la funzione che si attribuisce a detta norma è tanto quella di assicurare identico trattamento a situazioni identiche, quanto, parallelamente, quella di giustificare differenze di disciplina per situazioni non comparabili.
Ci sembra pacifico che la circostanza che il danno da  lesione di modesta entità debba essere risarcito dall’assicuratore, non giustifica affatto un diverso trattamento rispetto ai principi generali applicabili per tutti gli altri casi.
Ciò soprattutto se si tiene conto che la volontà del legislatore è stata quella di limitare le truffe assicurative.
In punto non vi è dubbio che la tutela degli enti assicurativi può e deve essere attuata attraverso diverse norme (in parte già esistenti) volte a punire i reati di truffa, senza penalizzare i cittadini attraverso un sistema depauperativo quanto ai diritti.
E’ un po’ come se , per evitare il proliferare delle violenze sessuali, la legge, anziché adottare misure protettive per i cittadini,  ne limitasse la libertà, imponendo alle donne di uscire di casa solo accompagnate da un parente maschio, come in certi paesi dell’Islam.
Sarà quindi, anche nel caso in questione,  compito degli avvocati quello di adoperarsi in sede giudiziaria al fine di far prevalere i diritti della persona e dei  cittadini; come pure sarà compito dei giudici quello di applicare la Legge al fine del conseguimento della "giustizia sostanziale", il cui conseguimento è sempre più messso a rischio dalla nostra classe politica sempre attenta alle esigenze delle vere lobbies.

 avv. Luigi Riccio
 

 

domenica 2 settembre 2012

IL NUOVO ART. 18 LEGGE 300/1970


 
Pubblichiamo il nuovo testo dell'art.18 Legge 300/1970, così come riformato dalla Legge 92/2012 con uno schema riassuntivo inerente la tutela reale.

 1.    Il giudice, con la sentenza con la quale dichiara la nullità del licenziamento perché discriminatorio ai sensi dell’articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, ovvero intimato in concomitanza col matrimonio ai sensi dell’articolo 35 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n.198, o in violazione dei divieti di licenziamento di cui all’articolo 54, commi 1, 6, 7 e 9, del decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151, ovvero perché riconducibile ad altri casi di nullità previsti dalla legge o determinato da un motivo illecito determinante ai sensi dell’articolo 1345 del codice civile, ordina al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, indipendentemente dal motivo formalmente addotto e quale che sia il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro. La presente disposizione si applica anche ai dirigenti. A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità di cui al terzo comma del presente articolo. Il regime di cui al presente articolo si applica anche al licenziamento dichiarato inefficace perché intimato in forma orale.

 2.    Il giudice, con la sentenza di cui al primo comma, condanna altresì il datore di lavoro al risarcimento del danno subito dal lavoratore per il licenziamento di cui sia stata accertata la nullità, stabilendo a tal fine un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative. In ogni caso la misura del risarcimento non potrà essere inferiore a cinque mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato inoltre, per il medesimo periodo, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali.
 3.    Fermo restando il diritto al risarcimento del danno come previsto al secondo comma, al lavoratore è data la facoltà di chiedere al datore di lavoro, in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro, un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, la cui richiesta determina la risoluzione del rapporto di lavoro, e che non è assoggettata a contribuzione previdenziale. La richiesta dell’indennità deve essere effettuata entro trenta giorni dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dall’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, se anteriore alla predetta comunicazione.
4.    Il giudice, nelle ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, perché il fatto contestato non sussiste o il lavoratore non lo ha commesso ovvero perché il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle tipizzazioni di giustificato motivo soggettivo e di giusta causa previste dai contratti collettivi applicabili, annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro di cui al primo comma e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso la misura dell’indennità risarcitoria non potrà essere superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto. Il datore di lavoro è condannato, altresì, al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, per un importo pari al differenziale contributivo esistente tra la contribuzione che sarebbe stata maturata nel rapporto di lavoro risolto dall’illegittimo licenziamento e quella accreditata al lavoratore in conseguenza dello svolgimento di altre attività lavorative. In quest’ultimo caso, qualora i contributi afferiscano ad altra gestione previdenziale, essi sono imputati d’ufficio alla gestione corrispondente all’attività lavorativa svolta dal dipendente licenziato, con addebito dei relativi costi al datore di lavoro. A seguito dell’ordine di reintegrazione, il rapporto di lavoro si intende risolto quando il lavoratore non abbia ripreso servizio entro trenta giorni dall’invito del datore di lavoro, salvo il caso in cui abbia richiesto l’indennità sostitutiva della reintegrazione nel posto di lavoro ai sensi del terzo comma.
5.    Il giudice, nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, dichiara risolto il rapporto di lavoro con effetto dalla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, in relazione all’anzianità del lavoratore e tenuto conto del numero dei dipendenti occupati, delle dimensioni dell’attività economica, del comportamento e delle condizioni delle parti, con onere di specifica motivazione a tale riguardo.
6.    Nell’ipotesi in cui il licenziamento sia dichiarato inefficace per violazione del requisito di motivazione di cui all’articolo 2, secondo comma, della legge 15 luglio 1966, n. 604, della procedura di cui all’articolo 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, o della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, si applica il regime di cui al quinto comma, ma con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro, tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con onere di specifica motivazione a tale riguardo, a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quelle previste dal presente comma, le tutele di cui ai commi quarto, quinto o sesto..
7.    Il giudice applica la medesima disciplina di cui al quarto comma del presente articolo nell’ipotesi in cui accerti il difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi dell’articolo 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, ovvero che il licenziamento è stato intimato in violazione dell’articolo 2110, secondo comma, del codice civile. Può altresì applicare la predetta disciplina nell’ipotesi in cui accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustifico motivo oggettivo; nelle altre ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli estremi del predetto giustificato motivo, il giudice applica la disciplina di cui al quinto comma. In tale ultimo caso il giudice, ai fini della determinazione dell’indennità tra il minimo e il massimo previsti, tiene conto, oltre ai criteri di cui al sesto comma, delle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell’ambito della procedura di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604. Qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo.
8.    Le disposizioni dal comma quarto al comma settimo si applicano al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se trattasi di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, che nell’ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti ed all’impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di cinque dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso al datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti.
9.    Ai fini del computo del numero dei dipendenti di cui all’ottavo comma si tiene conto dei lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato parziale per la quota di orario effettivamente svolto, tenendo conto, a tale proposito, che il computo delle unità lavorative fa riferimento all’orario previsto dalla contrattazione collettiva del settore. Non si computano il coniuge ed i parenti del datore di lavoro entro il secondo grado in linea diretta e in linea collaterale. Il computo dei limiti occupazionali di cui al nono comma non incide su norme o istituti che prevedono agevolazioni finanziarie o creditizie.
10.  Nell’ipotesi di revoca del licenziamento, purché effettuata entro il termine di quindici giorni dalla comunicazione al datore di lavoro dell’impugnazione del medesimo, il rapporto di lavoro si intende ripristinato senza soluzione di continuità, con diritto del lavoratore alla retribuzione maturata nel periodo precedente alla revoca, e non trovano applicazione i regimi sanzionatori previsti dal presente articolo.
11.  Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, su istanza congiunta del lavoratore e del sindacato cui questi aderisce o conferisca mandato, il giudice, in ogni stato e grado del giudizio di merito, può disporre con ordinanza, quando ritenga irrilevanti o insufficienti gli elementi di prova forniti dal datore di lavoro, la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
12.  L'ordinanza di cui al comma precedente può essere impugnata con reclamo immediato al giudice medesimo che l'ha pronunciata. Si applicano le disposizioni dell'articolo 178, terzo, quarto, quinto e sesto comma del codice di procedura civile.
13.  L'ordinanza può essere revocata con la sentenza che decide la causa.
14.  Nell'ipotesi di licenziamento dei lavoratori di cui all'articolo 22, il datore di lavoro che non ottempera alla sentenza di cui al primo comma ovvero all'ordinanza di cui al quarto comma, non impugnata o confermata dal giudice che l'ha pronunciata, è tenuto anche, per ogni giorno di ritardo, al pagamento a favore del Fondo adeguamento pensioni di una somma pari all'importo della retribuzione dovuta al lavoratore.
 
SCHEMA  DELLA RIFORMA DELL’ART. 18
 
 
Tutela reale
§  Nel caso di licenziamento  discriminatorio (per matrimonio, violazione della tutela della maternità e gli altri casi previsti dalla legge).
§  Nelle ipotesi in cui  non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa addotti dal datore di lavoro, perché il fatto contestato non sussiste o il lavoratore non lo ha commesso ovvero perché rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base dei contratti collettivi applicabili.
§  Nel caso di licenziamento orale
§  Nel  caso di difetto di giustificazione del licenziamento intimato, anche ai sensi dell’articolo 4, comma 4, e 10, comma 3, della legge 12 marzo 1999, n. 68, per motivo oggettivo consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore e violazione art.2110 C.C.
§  Nel caso di accertamento della manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustifico motivo oggettivo;
Tutela risarcitoria
§  Nelle altre ipotesi in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa.
§  Nell’ipotesi di violazione del requisito di motivazione del licenziamento di cui all’articolo 2, II co., legge 604/66 -, della procedura di cui all’art.7 L. 300/1970  o della procedura di cui all’art. 7 della L. n. 604/1966.
§  Nelle altre ipotesi in cui non in cui non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo

 Avv. Luigi Riccio
 

SI RIAPRE IL DIBATTITO SULLA FECONDAZIONE ASSISTITA

La Corte Europea per i diritti dell'uomo boccia il divieto imposto dalla legge 40 sulla fecondazione assistita, di eseguire lo screening sugli embrioni delle coppie portatrici di gravi patologie, al fine dell'impianto dei soli embrioni sani.
La Corte ha evidenziato la contraddittorietà della norma in questione rispetto alla legge 194/78  che autorizza, invece,  l'aborto terapeutico nel caso in cui sia a rischio la salute della donna.
Infatti, la 194 autorizza  l'interruzione volontaria della gravidanza entro i primi novanta giorni, "quando la donna accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica"; art. 6 lo autorizza  dopo i novanta giorni "quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna".
Per i giudici europei se lo stato tutela la salute psichica della donna consentendole di abortire un feto si contraddice nel vietarle preventivamente il controllo dell'embrione, al fine di evitare proprio il successivo aborto.
La sentenza della Corte per i diritti dell'uomo, come è stato anche autorevolmente sostenuto, può essere incorsa in un vizio procedurale e potrà essere impugnata quanto ad asserite contraddittorietà della motivazione, tuttavia le riflessione da fare sono altre.
Certo l'argomento in questione  è uno dei più difficili ed esula  dagli angusti confini del dogmatismo religioso, concernendo il più significativo campo del pensiero filosofico ove il dibattito è aperto sin dall'antichità. Da Aristotele in poi si è discusso sul momento in cui nel feto Dio infonde l'anima.  
Invero prima ancora di affrontare l'argomento della genesi dell'anima umana bisognerebbe risolvere quello relativo alla sua stessa effettiva esistenza.
A mio avviso, poichè il quesito è destinato a rimanere irrisolto, occorre in materia limitarsi ai meri aspetti di diritto.
Nel campo giuridico (del diritto vivente) non si può non tenere presente come la legge debba riflettere il comune sentire  dei cittadini ai quali la norma stessa è rivolta e che questo comune sentire rispecchi lo sviluppo morale, politico, scientifico, della società.
Certo all'interno di una società laica fortemente influenzata da una   "chiesa" non possono  non sussistere  dei  contrasti di opinioni, anche forti. E' questo il motivo per cui l'italia, sul piano dei diritti, è rimasta in dietro rispetto agli altri paesi europei.
La riprova di quanto sopra, è verificabile proprio con riferimento alla 194/78.
Si è trattato di una norma di compromesso che doveva mettere d'accordo laici e cattolici, limitando gli aborti a casi eccezzionali, mentre la sua applicazione è stata altra proprio perchè il "sentire comune", con il tempo,  è andato via via più nella direzione del riconoscimento del diritto delle donne di decidere se essere madri portando avanti la gravidanza.  
Perchè questo è il punto; nella scala dei valori come si colloca il diritto del feto (e ancor prima dell'embrione) rispetto ad altre tutele giuridiche?
La  graduatoria dei valori, e quindi dei diritti, è fondamentale per il legislatore; lo dimostra la stessa formulazione della legge 40/2004,  che attraverso le linee guida autorizza lo screening degli embrioni nel caso in cui l'uomo sia portatore di HIV ed epatite, quindi dando maggior importanza al pericolo sociale del contagio che ai diritto del feto.
E' un fatto di valori e avvaloramenti. La pena di morte è vietata perchè la vita è sacra, ma non lo è abbastanza in tempo di guerra; perchè la sopravvivenza dello stato è più importante della sopravvivenza del singolo.
Così si può, ed a mio avviso si deve,  ritenere che il diritto di autedeterminazione della donna venga prima del diritti dell'embrione.
In quest'ottica appare logica la decisione della Corte europea  di dichiarare la legge 40 in contrasto con  l'art. 8 della Convenzione europea per i diritti dell'uomo, risultando lesiva del diritto ivi riconosciuto al rispetto della vita privata e familiare.
Una cosa è certa, riprenderà in Italia il dibattito sulla fecondazione assistita e forse sull'aborto, con la speranza che gli italiani si interessino alla questione in modo intelligente e responsabile, ascoltando la propria coscienza e non gli slogan della parrocchia.
 
 Luigi Riccio