martedì 18 settembre 2012

LESIONI DI MODESTA ENTITA' E DANNO MORALE


E’ noto come le compagnie di assicurazione in via stragiudiziale siano restie a liquidare il danno morale relativamente alle lesioni di piccola entità.
Apoditticamente i liquidatori assumono che la recente giurisprudenza di legittimità ne escluderebbe la risarcibilità; nella migliore delle ipotesi eccepiscono che il danno da sofferenza non risulta provato.
Si tratta nuovamente  di una tesi errata e capziosa sostenuta  a mero fine defatigatorio; comportamento che, in ogni caso da i suoi frutti, atteso che per “sfinimento”  e per economia, molto spesso i danneggiati rinunciano ad agire in giudizio per vedersi riconosciuta questa voce di danno, tenuto conto anche dell’entità modesta dei ristori.
In diritto le cose stanno diversamente.
Non si può, in materia,  non partire dalla nota sentenza della  Corte di Cassazione a Sezioni Unite dell’ 11 Novembre 2008 n. 26972 ed alle  successive sentenze di legittimità, le quali si sono  pronunciate sulla vexata quaestio  della “struttura” del danno non patrimoniale, con particolare riferimento al danno morale ed esistenziale.
L’esistenza del danno da sofferenza (danno morale), termine non inteso a descrivere  una autonoma categoria di danno, ma a rappresentare, sotto il profilo lessicale, un aspetto importante del più complesso danno non patrimoniale, non è stato  certamente  messo in dubbio dalle Sezioni Unite
Infatti si legge nella nota sentenza:    Nell’ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula “danno morale” non individua una autonoma sottocategoria del danno ma descrive, tra i vari possibili danni non patrimoniali, un tipo di pregiudizio costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini dell’esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento.
La Corte esplicitamente riconosce l’esistenza di un pregiudizio “da sofferenza” che deve essere considerato e ristorato nella sua integrità.
Le Sezioni Unite condividono e fanno propria la lettura, costituzionalmente orientata, data dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 all’art. 2059 c.c. (par. 2.2).
La lettura della sentenza delle Sezioni Unite non ha introdotto, quindi,  elementi di novità nella parte in cui ammette la rilevanza di ogni sofferenza, fisica, psichica, transitoria o permanente patite dalla vittima; in questo senso, viene superata la figura del cosiddetto danno morale soggettivo transeunte.
Dicono infatti le Sezioni Unite:
“La sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra il pregiudizio non patrimoniale. Deve trattarsi di un turbamento dell’anima, di un dolore sofferto, che non abbia generato degenerazioni patologiche della sofferenza.”  
Assolutamente non condivisibile, in quanto illegittima, risulta dunque essere l’impostazione assunta dalle compagnie di assicurazione che, uniformemente, si rifiutano di risarcire il danno morale in presenza di lesioni micropermanenti; ciò soprattutto se si considera che la Corte di Cassazione, Sez.III, con ordinanza del 17/09/2010 n.19816, ha espressamente riconosciuto la risarcibilità del danno morale anche per le micropermanenti.
Assume la Corte :  
“La parte danneggiata da un comportamento illecito che oggettivamente presenti gli estremi del reato ha diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali, ai sensi dell’art. 2059 cod. civ., i quali debbono essere liquidati in unica somma, da determinarsi tenendo conto di tutti gli aspetti che il danno non patrimoniale assume nel caso concreto (sofferenze fisiche e psichiche; danno alla salute, alla vita di relazione, ai rapporti affettivi e familiari, ecc.)”.
In punto prova del danno morale  è bene precisare che la sofferenza derivante da una lesione fisica, sia pure di non grave entità può essere provata con riferimento all’ “id quod plerumque accidit”, ovvero in modo presuntivo,  come del resto la giurisprudenza di legittimità e di merito ha sempre riconosciuto.
In questo senso la richiamata sentenza delle Sezioni Unite ha ribadito che, se pure il danneggiato deve offrire la prova del danno lamentato, detta prova può essere data con ogni mezzo, ivi comprese le presunzioni semplici.
Si legge infatti nella sentenza: la “la prova presuntiva è destinata ad assumere particolare rilievo e potrà costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri”
E’ evidente che il giudicante potrà evincere elementi di prova, in ordine alla sofferenza del danneggiato, dal solo esame della certificazione attestante il protrarsi della malattia o dalla circostanza che il lesionato si sia dovuto sottoporre a cure fisioterapiche e riabilitative.
E’ infatti noto a tutti che da una lesione fisica, sia pure di modesta entità derivi sempre, quale conseguenza immediata, al di là del dato clinico, l’insorgenza di sofferenza fisica.
La distrazione del rachide cervicale comporta, oltre che una riduzione fisiologica dei movimenti del capo e delle spalle, capogiri, emicranie, sensi di nausea, dolore al collo ecc.
Da un punto di vista pratico, la dimostrazione del danno morale si risolve di fatto, nella prova del danno biologico e dei fatti che, sempre sotto il profilo del danno biologico, hanno avuto luogo in seguito alle lesioni: periodi di degenza, cure, trattamenti medici e fisioterapic (G.di P. di Bari n.8898/2010).
Il giudice può dunque sempre  considerare provato il danno sulla sola scorta della  documentazione prodotta in causa e con ricorso al principio del “id oquod plerumque accidit” .
In ogni caso è bene sempre svolgere una minima attività istruttoria indicando al giudice dei soggetti,  (il più delle volte parenti) che possano testimoniare sullo stato di malessere e sull'abbattimento morale patito dal lesionato, al massimo il giudice non ammetterà la prova ritenendo che il danno morale sia scontato.
Una volta chiarito, in via di principio, che il danno da sofferenza debba essere oggetto di specifica liquidazione al fine dell’ integrale ristoro del danno , occorre, fare qualche osservazione in ordine alle apparenti imitazioni che il CdA (artt.138-139) sembra disporre in ordine alle lesioni tabellate entro il 9%. Le norme stabiliscono infatti che la personalizzazione del danno non può eccedere il 20% oltre quanto liquidato in base alle tabelle.
 
In punto si è pronunciata la Corte di Appello di Torino con la sentenza n. 1315/2009 del 5 Ottobre 2009
La Corte Torinese  non condivide quella l’interpretazione dottrinale secondo cui il danno da sofferenza, patito nel caso di lesioni al di sotto del 9%, debba essere liquidato nel limite di un quinto (20%) del danno biologico.
Infatti: ” La corte non ritiene corretta la lettura di norme di diritto positivo elaborate in un contesto storico e sistematico che si riferiva al solo danno alla vitalità biologica medicalmente accertato, e non già al pregiudizio della integrità morale della persona” (pag.58 della citata sentenza)
In buona sostanza la Corte ritiene non applicabile la restrizione normativa del Codice delle Assicurazioni in quanto la norma è precedente alla sentenza delle Sezioni Unite, in un periodo in cui il danno morale era ritenuto autonoma categoria risarcitoria da sommarsi al danno biologico.
In tal senso si è pronunciato anche il Tribunale di Torino (sentenza emessa in data 17/3/09 dal Dott. Ciccarelli):  “Va osservato che qualora la lesione biologica non superi il limite del 9% la valutazione e liquidazione del danno da sofferenza mediante un aumento del valore punto, non è praticabile, poiché tale valore, è fissato dalla legge.
E non è evidentemente sostenibile che i valori siano fissati dal legislatore già tenendo conto della sofferenza; poiché il consolidato orientamento della giurisprudenza di merito e di legittimità era nel senso che la sofferenza dovesse essere ristorata “ a parte” attraverso il riconoscimento del danno morale.
Ogni diversa interpretazione presterebbe il fianco a censure di illegittimità costituzionale, in quanto precluderebbe, nei casi rientranti nella previsione dell’art. 139 CdA, l’integrale ristoro del danno alla persona.
D’altra parte non è plausibile, a fronte di definizioni normative del danno biologico identiche (tali sono quelle dell’art.138, 2° comma e dell’art. 139 2° CdA ) , che si ritenga escluso da tale nozione il danno da sofferenza per le lesioni macropermanenti e lo si ritenga invece incluso per le micropermanenti.
Né la più volte citata sentenza delle Sezioni Unite definisce il danno non patrimoniale in modo diverso a seconda dell’entità della lesione; al contrario, lo definisce in termini unitari e comprensivi, sempre, del danno da sofferenza fisica e psichica ( la cui entità e durata nel tempo, precisa la Corte, non assumono rilevanza ai fini dell’esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento).
Alla luce di tali considerazioni si ritiene che, anche nel caso di lesioni micropermanenti, possa ( non già debba) esistere un pregiudizio da “sofferenza”, non incluso nella liquidazione effettuata mediante i criteri dettati dall’ art. 139 CdA.
Tale pregiudizio consiste nel patimento interiore causato dall’illecito: sia per il turbamento e per i disagi che esso ha in concreto comportato, sia per le privazioni cui ha costretto la vittima.
E la sua dimostrazione potrà essere data mediante prova documentale, testimoniale o presuntiva, assumendo proprio quest’ultima particolare rilievo, e potendo anzi costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice”.
 
Pertanto quando il danneggiato è in grado di provare di aver patito un danno da sofferenza morale o esistenziale di particolare rilevanza, il giudice potrà liquidare una somma che vada oltre al tetto del 20% su quanto liquidato per il danno biologico.
Si può fare il seguente esempio.
Se il danneggiato è un pianista o violinista dilettante ed ha subito una lesione ad un dito che non gli consente più di suonare, sarà risarcito per il danno biologico in base alle tabelle e per il danno da sofferenza morale ed esistenziale in via equitativa. Il giudice, per stabilire in modo equo l'importo del risarcimento dovrà tenere conto dell'importanza che assumeva per il danneggiato il suonare uno strumento, come questa sua attività si rifletteva nel suo "quotidiano" anche a livello sociale e relazionale.
In buona sostanza siccome ognuno di noi è diverso, ha le sue inclinazioni, le sue aspirazioni, le sue relazioni, è giusto che il risarcimento sia personalizzato perchè la sofferenza e l'impatto sulla vita privata familiare e relazionale non è uguale per tutti.
Al di là, dunque, delle rigide ingessatire pensate dai nostri legislatori  per calmierare i risarcimenti, compito dell'avvocato sarà sempre  quello di mettere in luce le singole situazioni, mentre spetterà al giudice coscienzioso apprezzarle ai fini del risarcimento. 
 
Avv. Luigi Riccio
 
 

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