domenica 1 dicembre 2013

CANTO DEL POPOLO YUDDISH MESSO A MORTE

Margherite Yourcenar ha scritto che Dio è come una fiammella nelle nostre mani;  sta a noi non lasciarla spegnere.  Lo stesso vale per l'arte e la poesia.
La poesia, come la fede, è consolatoria.
La poesia non è solo un balsamo per l'animo,  è anche denuncia, invettiva, rappresenta la memoria storica di un popolo, come le altre forme d'arte.
Per questa ragione, durante la resistenza ebraica del ghetto di Varsavia, nel '43, i partigiani ebrei facevano fuggire e nascondevano i loro poeti. In quel momento drammatico della storia moderna, unico per le sue dimensioni apocalittiche, gli ebrei  del ghetto, assediati e affamati, in lotta per la loro sopravvivenza, tentarono di mettere in salvo Itzak Katzenelson, letterato, poeta e drammaturgo.
Ktzenelson non si salverà, come i suoi figli e la moglie, ma i suoi versi si; gli sopravviveranno come per miracolo, in modo romanzesco che sa anch'esso di poesia.
Scriverà in prigionia, nel campo di concentramento di Vittel, il "Canto del  popolo yiddish messo a morte", poi, prima di essere trasportato in un altro campo, ove sarà ucciso pochi giorni dopo insieme a suo figlio (nella foto), seppellirà i suoi versi accartocciandoli  in tre bottiglie; quindici canti di quindici strofe l'uno. Era il '44.
Verranno ritrovati  subito dopo la guerra "vicino all'uscita, a destra, al sesto palo che ha una spaccatura in mezzo, ai piedi di un albero", secondo le sue istruzioni.
Il Canto costituisce una delle tante testimonianze dell'orrore, rappresenta un monito doloroso, come il diario di Anna Frank; un lascito a quelli che verranno.                  
Ma i versi di Katzenelson sono anche l'emblema della forza vitale della poesia,  che nessuna miseria umana può annichilire e che, anzi, come le ginestre del Leopardi, spesso proprio nella distruzione e nella catastrofe trova il proprio humus.
Del resto, quante opere di ingegno e quante poesie si sono scritte in carcere: Campanella, Gramsci, Hikmet.
Mi piace ricordare, con infinita ammirazione, il poeta turco Nazim Hikmet che, imprigionato per dieci anni, in quanto comunista, dal regime di Ataturk, privato della carta e dell'occorrente     per    scrivere, componeva versi che faceva apprendere a memoria ai suoi compagni di cella, perché, una volta liberati, li trascrivessero per lui.
 
                                                                                   
                                                                                 
Amo dire i tuo nome, amo la sua pronuncia: Hanele. Amo
verso di te rivolgermi, dopo la Tua scomparsa, insieme alla mia gente.
Mi rispondi, mi offri lo sguardo dei tuoi occhi luminosi, il piccolo sorriso delle labbra, triste e buono
Amo chiamarti nel mio star da solo, nella mia solitudine ti chiedo: "Ti ricordi? 
                                                                                                         Itzak Katzenelson
 
Prendila sul serio (la vita)
ma sul serio a tal punto
che a settanta anni, ad esempio, pianterai degli ulivi

non perché restino ai tuoi figli
ma perché  non crederai alla morte
pur temendola
e la vita peserà di più sulla bilancia.
                                                        Nazin Hikmet
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Luigi Riccio