domenica 1 dicembre 2013

CANTO DEL POPOLO YUDDISH MESSO A MORTE

Margherite Yourcenar ha scritto che Dio è come una fiammella nelle nostre mani;  sta a noi non lasciarla spegnere.  Lo stesso vale per l'arte e la poesia.
La poesia, come la fede, è consolatoria.
La poesia non è solo un balsamo per l'animo,  è anche denuncia, invettiva, rappresenta la memoria storica di un popolo, come le altre forme d'arte.
Per questa ragione, durante la resistenza ebraica del ghetto di Varsavia, nel '43, i partigiani ebrei facevano fuggire e nascondevano i loro poeti. In quel momento drammatico della storia moderna, unico per le sue dimensioni apocalittiche, gli ebrei  del ghetto, assediati e affamati, in lotta per la loro sopravvivenza, tentarono di mettere in salvo Itzak Katzenelson, letterato, poeta e drammaturgo.
Ktzenelson non si salverà, come i suoi figli e la moglie, ma i suoi versi si; gli sopravviveranno come per miracolo, in modo romanzesco che sa anch'esso di poesia.
Scriverà in prigionia, nel campo di concentramento di Vittel, il "Canto del  popolo yiddish messo a morte", poi, prima di essere trasportato in un altro campo, ove sarà ucciso pochi giorni dopo insieme a suo figlio (nella foto), seppellirà i suoi versi accartocciandoli  in tre bottiglie; quindici canti di quindici strofe l'uno. Era il '44.
Verranno ritrovati  subito dopo la guerra "vicino all'uscita, a destra, al sesto palo che ha una spaccatura in mezzo, ai piedi di un albero", secondo le sue istruzioni.
Il Canto costituisce una delle tante testimonianze dell'orrore, rappresenta un monito doloroso, come il diario di Anna Frank; un lascito a quelli che verranno.                  
Ma i versi di Katzenelson sono anche l'emblema della forza vitale della poesia,  che nessuna miseria umana può annichilire e che, anzi, come le ginestre del Leopardi, spesso proprio nella distruzione e nella catastrofe trova il proprio humus.
Del resto, quante opere di ingegno e quante poesie si sono scritte in carcere: Campanella, Gramsci, Hikmet.
Mi piace ricordare, con infinita ammirazione, il poeta turco Nazim Hikmet che, imprigionato per dieci anni, in quanto comunista, dal regime di Ataturk, privato della carta e dell'occorrente     per    scrivere, componeva versi che faceva apprendere a memoria ai suoi compagni di cella, perché, una volta liberati, li trascrivessero per lui.
 
                                                                                   
                                                                                 
Amo dire i tuo nome, amo la sua pronuncia: Hanele. Amo
verso di te rivolgermi, dopo la Tua scomparsa, insieme alla mia gente.
Mi rispondi, mi offri lo sguardo dei tuoi occhi luminosi, il piccolo sorriso delle labbra, triste e buono
Amo chiamarti nel mio star da solo, nella mia solitudine ti chiedo: "Ti ricordi? 
                                                                                                         Itzak Katzenelson
 
Prendila sul serio (la vita)
ma sul serio a tal punto
che a settanta anni, ad esempio, pianterai degli ulivi

non perché restino ai tuoi figli
ma perché  non crederai alla morte
pur temendola
e la vita peserà di più sulla bilancia.
                                                        Nazin Hikmet
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Luigi Riccio

domenica 10 novembre 2013

UNA POESIA PER L'AUTUNNO

 
RITMO D'AUTUNNO

A Manuel Angeles                                                                         

Amarezza d'oro del paesaggio.
Il cuore ascolta.
Nell'umida tristezza
il vento disse:
-Sono tutto di stelle liquefatte,
sangue dell'infinito.
Col mio attrito metto a nudo i colori                                                      
dei fondali addormentati.
Me ne vado ferito da mistici sguardi,
e porto i sospiri
in bolle invisibili di sangue
verso il trionfo sereno                                                                          
dell'amore immortale pieno di Notte.                                                 
I bambini mi conoscono,
e mi riempio di tristezza.
Per le fiabe di regine e di castelli
sono coppa di luce. Sono turibolo
di splendidi canti
che scesero avvolti in azzurre
trasparenze di ritmo.
Nella mia anima si persero
solenni corpo ed anima di Cristo,
e fingo la tristezza della sera
freddo e malinconico
il bosco innumerabile.
Porto le caravelle dei sogni
verso l'ignoto.
E ho l'amarezza solitaria
di non sapere la mia fine e il mio destino.
Le parole del vento erano dolci,
con profondità di gigli.
Il mio cuore si addormentò nella tristezza
del crepuscolo.
Sulla scura terra della steppa
i vermi dissero i loro deliri.
-Sopportiamo tristezze
ai margini della strada.
Sappiamo dei fiori dei boschi,
del canto monocorde dei grilli,
della lira senza corde che tocchiamo,
del sentiero nascosto che seguiamo.
Il nostro ideale non arriva alle stelle,
è sereno, semplice.
Vorremmo fare miele, come api,
e avere una voce dolce o un grido forte,
o camminare tranquilli sulle erbe,
o allattare con seni i nostri figli.
Beati quelli che nascono farfalle
o hanno luce di luna nel vestito.
Beati quelli che potano la rosa
e raccolgono il grano!
Beati quelli che non temono la morte
perché hanno il Paradiso,
e l'aria che corre dietro a ciò che vuole
certa d'infinito!

 
                                       
                      - II -

Beati i gloriosi e i forti,                                                                                    quelli che non furono compatiti mai,
quelli che frate Francesco esultando
benedisse e rallegrò.
Sopportiamo grande pena
per le strade.
Vorremmo sapere quello che ci dicono
i gattici del fiume.
E nella muta tristezza della sera
la polvere della strada gli rispose:
-Beati voi, vermi, che avete
coscienza giusta di voi stessi,
e forme e passioni
e focolari accesi.
Io mi dissolvo nel sole
seguendo il pellegrino,
e quando penso ormai di restare nella luce
cado a terra addormentata.
I vermi piansero, e gli alberi,
agitando le loro teste pensierose,
dissero: - E' impossibile l'azzurro.
Da bambini credevamo di raggiungerlo,
e vorremmo essere come le aquile
ora che siamo colpiti dal fulmine.
L'azzurro è tutto delle aquile. -
E l'aquila di lontano:
-No, non è mio!
Perché l'azzurro è delle stelle
là tra splendori luminosi-,
E le stelle: -Neanche noi lo abbiamo:
sta nascosto tra di noi.-
E la scura distanza: -L'azzurro
è nel regno della speranza.-
E la speranza dice sottovoce
dal suo regno oscuro:
-Voi altri mi inventate, cuori.-
E il cuore:
-Dio mio!
L'autunno ha lasciato senza foglie
i gattici del fiume


                             - III -                                                                            

L'acqua ha addormentato nell'argento vecchiola polvere della strada
I vermi sonnolenti scendono
nei loro freddi focolari.
L'aquila si perde sulla montagna;
il vento dice: -Sono ritmo eterno.
Si sentono le ninne nanne nelle culle povere,
e il pianto del gregge nell'ovile.
La tristezza umida del paesaggio
mostra come un giglio
le rughe severe che lasciarono
gli occhi pensierosi dei secoli.
E mentre riposano le stelle
nell'azzurro addormentato,
e il mio cuore vede lontano il suo ideale
e implora:
-Dio mio!
Ma, Dio mio a chi?
Chi è Dio mio?
Perchè la nostra speranza si addormenta
e sentiamo la poetica delusione
e gli occhi si chiudono abbracciando
tutto l'azzurro?
Voglio lanciare il mio grido
sul vecchio paesaggio e il fumante focolare,
piangendo di me come il verme
deplora il suo destino,
e implorando quello dell'uomo, amore immenso
e azzurro come i gattici del fiume.
Azzurro di cuori e forza,                                                                           
l'azzurro di me stesso
che m'offra tra le mani la grande chiave
che violi l'infinito,
senza terrore e paura della morte,
brillante d'amore e poesia
anche se il fulmine mi colpisce come un albero                            
e mi lascia senza foglie e senza grido.
Ora ho sulla fronte rose bianche
e la coppa trabocca di vino.


  
                                            §§§                                     

Lorca è sicuramente il poeta che amo di più, forse anche perché l'ho scoperto quando ero molto giovane, credo a quattordici anni. A quell'età, ancor privi di esperienza e di cultura, si è dotati di una  tale dose di sensibilità che, il verso, la parola, l'immagine, ti trafiggono come il raggio di sole di Quasimodo.
Leggendo Garcia  Lorca, sin dai primi versi, il lettore perde il contatto con il reale (che poi il reale è solo percezione soggettiva) e si trova in un mondo surreale ove il vento, il mare, i pesci, la luna e le stelle dialogano, cantano, piangono. Il vento satiro solleva le sottane delle ragazze, la luna conduce i bambini per mano.
La poesia di Lorca trabocca di forza vitale e di sanguigna sensualità, quella del poeta stesso che l'amico Pablo Neruda così descrive :
"non ho mai visto riunite, come in lui, la grazia e il genio, il cuore alato e la cascata cristallina ,aveva un’allegria centrifuga, una felicità di vivere, una luce che raccoglieva in  seno e la irradiava agli altri, come fanno i pianeti…. "
Ma la sua vitalità immaginifica deve costantemente misurarsi con il male di vivere, così l'allegrezza si alterna  alla profonda tristezza...... "la tristezza che ebbe la sua coraggiosa allegria".
Ritmo d'autunno bene rappresenta la poesia di Lorca, vi è dentro tutto il suo mondo, per noi inanimato e materiale, per Garcia vivo e disperato; e tutti questi esseri della terra, del mare e del cielo (anima mundi) sono alla ricerca della grande chiave che violi l'infinito, senza terrore e paura della morte.

Luigi Riccio
                                                                                        Disegno di Lorca
 
                                    


 
 

 
 
 
 

 
 

 


Salvator Dalì e Garcia Lorca



                                                    












Quadro di Dalì ( in fondo a destra il ritratto di Lorca)

domenica 6 ottobre 2013

QUI GIACCIONO I MIEI CANI - D'ANNUNZIO E IL TRIONFO DELLA MORTE

Qui giacciono i miei cani            
gli inutili miei cani,
stupidi ed impudichi,
novi sempre et antichi,
fedeli et infedeli
all’Ozio lor signore,
non a me uom da nulla.
Rosicchiano sotterra
nel buio senza fine
rodon gli ossi i lor ossi,
non cessano di rodere i lor ossi
vuotati di medulla
et io potrei farne
la fistola di Pan
come di sette canne
i’ potrei senza cera e senza lino                                 
farne il flauto di Pan
se Pan è il tutto e
se la morte è il tutto.
Ogni uomo nella culla
succia e sbava il suo dito
ogni uomo seppellito
è il cane del suo nulla.
 
Gabriele D’Annunzio, ottobre 1935


Per  alcuni questi versi  appaiono come la dichiarazione, in extremis rilasciata dal Poeta, della propria sconfitta esistenziale e quindi artistica; quasi che la crudezza delle parole e delle immagini, ritenuta confliggente  con la sua antecedente poesia, rappresenti una  resa di fronte alla vacuità del tutto. La morte ridurrebbe vano ogni sforzo di sublimazione, la vita dell'uomo si ridurrebbe dunque solo ad una mera consunzione  di se stessi che ha  inizio fin dalla culla.
Ho letto giudizi superficiali, sul testo in questione, frutto di una prevenzione nei confronti del Poeta che spesso ha radice ideologica e politica; commenti di chi considera l'opera di D'Annunzio una mera artificiosa costruzione estetica, priva di profondità .
Costoro a mio avviso non comprendono che il valore e la qualità letteraria e poetica di D'Annunzio sono frutto, in parte, proprio dalla sua estenuate, pervicace, ed a volte  dolorosa, ricerca della "bellezza".
La bellezza, o meglio l'arte, ce lo dice Croce, è intuizione, immagine che non nasce dalla volontà e non tende alla morale (Benedetto Croce "Breviario di Estetica"), in questo senso, e condividendo il pensiero del nostro filosofo,  non comprendo le censure mosse a poeta.
Dovremmo forse svalutare tutta la poesia dell' amor cortese e del dolce stil novo perché, vagheggiando la donna ideale,  Dante, Cavalcanti, Guinizzelli e Lapo Gianni, si discostano dall'impegno sociale e  politico  o non approfondiscono  tematiche morali o psicologiche?
D'altro canto, a prescindere da queste considerazioni e tornando all'argomento in esame, non si può non evidenziare come l'opera di D' Annunzio abbia trattato con grande  profondità proprio il  tema della morte, la sua vita stessa, come quella dei suoi personaggi, mette in risalto l'eterno  dualismo tra eros e thanatos .
Molti poeti del romanticismo, come Foscolo, hanno vissuto vite intense e passionali meditando e scrivendo sulla "fatal quiete", ma nessun poeta come D'Annunzio ha fatto della propria vita un'opera d'arte, ove l'impulso vitale confligge con il desiderio di morte;  la sua ricerca della morte eroica ne è un chiaro esempio, così come l'impulso al suicidio dei suoi personaggi .
La morte per fuggire  ad una vita che non può soddisfare il sogno estetico; la passione per la donna amata che sola può sublimare l'esistenza; l'amore stesso, terreno di un nuovo conflitto interiore tra la volgarità dell'istinto materiale e l'ideale ascetico ...... il suicidio come ineluttabile soluzione.
Questo il tema del "Trionfo della Morte" .
Non stupiscono allora i versi di "Qui giacciono i miei cani"; non sorprende neppure la crudezza delle raffigurazioni, infatti quante terribili  immagini della morte e dello sfacelo della carne troviamo in D'Annunzio!
La biografia del poeta ci dice come egli negli ultimi giorni soffrisse di depressione, cosciente del proprio decadimento fisico e dell'approssimarsi della fine, è stato colto, dunque,  da pensieri oscuri sulla futilità del tutto. Del resto alla "favola bella" che illude Ermione, D'Annunzio probabilmente non aveva mai creduto; certo non fu mai la paura della morte a frenare il suo coraggioso e immaginifico vitalismo. Sicuramente il poeta riteneva, come Nietzsche  che "nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto" e così ha vissuto il suo arco temporale con una pienezza rara ed irripetibile.

Luigi Riccio


Voglio un amore doloroso, lento,
che lento sia come una lenta morte,
e senza fine (voglio che più forte
sia de la morte) e senza mutamento.

Voglio che senza tregua in un tormento
occulto sian le nostre anime assorte;
e un mare sia presso a le nostre porte,
solo che pianga in un silenzio intento.

Voglio che sia la torre alta granito,
ed alta sia così che nel sereno
sembri attingere il grande astro polare.

Voglio un letto di porpora, e trovare
in quell'ombra giacendo su quel seno,
come in fondo a un sepolcro l'Infinito.
 
da PensieriParole <http://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-d-autore/poesia-108337>
                                                                                                              Gabriele D'Annunzio 

sabato 28 settembre 2013

GLI STUDENTI E LA RIABILITAZIONE DI SACCO E VANZETTI

Non lo sapevo, e va saputo, che gli studenti di giurisprudenza di Boston diedero un contributo fondamentale per la riabilitazione di Sacco e Vanzetti .
Fu la proiezione nelle sale cinematografiche americane del magnifico film di Giuliano Montaldo "Sacco e Vanzetti" a stimolare nei futuri giuristi, prima la curiosità, poi l'assidua ricerca della verità.   I ragazzi, alternandosi e succedendosi per  sette anni nello studio delle carte processuali, furono in grado di presentare  al governatore del Massachussets la loro sentenza di assoluzione e ottenere, nel 1977, la riabilitazioni di Nicola e Bartolomeo .  
Dall'episodio si possono trarre due considerazioni.
La prima è che, al di là della retorica e delle frasi fatte, il progresso umano è da sempre nelle mani dei giovani, la seconda è che lo Stato, in osservanza del dettato costituzionale, ha il dovere di istruire e stimolare i giovani con tutti i mezzi (scuola e mass media), perché solo attraverso la conoscenza si forma la coscienza individuale e collettiva di una generazione.
Assistiamo invece a due fenomeni opposti.
Le istituzioni sono prevalentemente affollate da soggetti vicini all'età senile, e lo Stato poco si cura di migliorare il livello culturale dei giovani. Lo dimostrano le scarse risorse economiche destinate alla cultura, alla scuola ed alle  attività e iniziative artistiche.
 
Luigi Riccio
 
 
a proposito di giovani impegnati .......
 
Joan Baez
 
 
Come non commuoversi ascoltando e guardando  Joan Baez (icona dell'impegno sociale e artistico giovanile) cantare la ballata di Sacco e Vanzetti
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
La colonna sonora del film è composta da tre canzoni, le prime due (musica di Ennio Morricone e testo di Jaon Baez) cantata da Jaon Baez, , la terza musicata da Pete Seeger richiama il testo dell'ultima lettera scritta da  Nicola Sacco al figlio .

 
 
LA BALLATA DI SACCO E VANZETTI (prima parte - testo di Joan Baez)

"Portatemi i vostri stanchi e i vostri poveri
le vostre masse riunite per respirare libere
i rifiuti scartati delle vostre rive affollate
mandateli, i senzacasa, quelli colpiti da tempesta, da me"

Benedetti siano i perseguitati
e benedetti siano i puri di cuore
benedetti siano i misericordiosi
e benedetti siano i portatori di lutto

Il passo è difficile che strappa le radici
e dice addio ad amici e famiglia
i padri e le madri piangono
i bambini non possono capire
ma quando c'è una terra promessa
i coraggiosi andranno e gli altri seguiranno
la bellezza dello spirito umano
è la volontà di provare i nostri sogni
e così le masse si affollano attraverso l'oceano
in una terra di pace e speranza
ma nessuno udì una voce o vide una luce
e furono sbattuti contro la riva
e nessuno fu accolto dall'eco della frase
"alzo la mia lampada dietro la porta d'oro"

Benedetti siano i perseguitati
e benedetti siano i puri di cuore
benedetti siano i misericordiosi
e benedetti siano i portatori di lutto
 
LA BALLATA DI SACCO E VANZETTI, SECONDA PARTE

Sì Padre, son carcerato
Non aver paura di parlare del mio reato
Crimine di amare i dimenticati
Solo il silenzio è vergogna
.


Ed ora ti dirò cosa abbiamo contro di noi
Un'arte che è stata viva per secoli
Percorri gli anni e troverai
cosa ha imbrattato tutta la storia.

Contro di noi è la legge con la sua immensa forza e potere
Contro di noi è la legge!
La Polizia sa come fare di un uomo un colpevole od un innocente
Contro di noi è il potere della Polizia!
Le menzogne senza vergogna dette da alcuni uomini
saranno sempre ripagate in denari.
Contro di noi è il potere del denaro
Contro di noi è l'odio razziale ed il semplice fatto
Che siamo poveri.

Mio caro padre, son carcerato
Non vergognarti di divulgare il mio reato
Crimine d'amore e fratellanza
E solo il silenzio è vergogna.

Con me ho il mio amore, la mia innocenza, i lavoratori ed i poveri
Per tutto questo sono integro, forte e pieno di speranze.
Ribellione, rivoluzione non han bisogno di dollari,
Ma di immaginazione, sofferenza, luce ed amore e rispetto
Per ogni essere umano.
Non rubare mai, non uccidere mai, sei parte della forza e della vita
La Rivoluzione si tramanda da uomo ad uomo e da cuore a cuore
E percepisco quando guardo le stelle che siamo figli della vita
... La morte è poca cosa.
      
                                                                                   Joan Baez e Bob Dylan
 

 

 
 
 
 
 
 
 
  
 
 
 
 
 
















LETTERA DI NICOLA SACCO A SUO FIGLIO  (Versione italiana di Riccardo Venturi)

Se niente accade, ci porteranno alla sedia elettrica poco dopo mezzanotte
e quindi sono qui, accanto a te, con amore e aprendo il mio cuore
come lo ero ieri.
Non piangere, Dante, perché tante, troppe lacrime sono andate sprecate,
perché le lacrime di tua madre sono già andate sprecate per sette anni,
e non hanno portato a nulla di buono.
E così, figlio mio, invece di piangere, sii forte e coraggioso
così da poter confortare tua madre.

E quando vorrai sollevarla dalla scoraggiante solitudine,
portala a fare una lunga passeggiata nella tranquilla campagna
raccogliendo fiori qua e là.
Riposatevi all’ombra degli alberi, in compagnia della musica delle acque
e della natura piena di pace; le piacerà molto,
così come certamente piacerà a te.
Ma, figlio mio, ricordati bene: non stancarti troppo,
ma mettiti sempre sotto, solo un passo, ad aiutare i deboli che ti stanno accanto.

I più deboli, che invocano aiuto, i perseguitati, la vittima.
Sono i tuoi amici, amici miei e tuoi, sono i compagni che lottano,
sì, e che, talvolta, cadono
proprio come tuo padre, tuo padre e Bartolo sono caduti.
Hanno lottato e ieri sono caduti, per conquistare la gioia
e la libertà per tutti.
Nella lotta per la vita troverai ancora più amore,
e, lottando, sarai anche amato.
 
 

lunedì 9 settembre 2013

IL RISPETTO DELLA LEGGE, DA SOCRATE A BERLUSCONI

Perché ci ostiniamo ad insegnare ai nostri figli  principi che poi siamo i primi a disattendere?
Non parlo dei compromessi morali a cui spesso cede, per debolezza, il singolo, mi riferisco alla palese contraddittorietà etica dell'intera società. o di buona parte di questa. 
Ammesso (ma non concesso necessariamente) che i nostri politici abbiano frequentato un liceo, è fuor di dubbio che si siano imbattuti in argomenti di storia e filosofia, ritenuti essenziali dal programma ministeriale, per la crescita intellettuale dei giovani.
Tra questi argomenti fondamentali primeggia quello del "rispetto della legge" e quindi, come conseguenza, delle sentenze.
Non vi è un liceale (o un ex liceale) italiano che non abbia letto, commentato e magari tradotto l'Apologia di Socrate, ovvero appreso di come Socrate, condannato ingiustamente a morte, per un fatto non commesso, pur potendosi sottrarre all'esecuzione della sentenza allontanandosi da Atene, avendo in sommo grado rispetto per La Legge, scontò serenamente la pena, bevendo la cicuta.
« Non voglio fuggire, non bisogna mai commettere un'ingiustizia nemmeno quando la si riceve. » fa dire Platone a Socrate.
Ancora, e bene lo sanno gli studenti del liceo classico, filologi, filosofi, studiosi e poeti, per più di duemila anni hanno analizzato, discusso e rappresentato la tragedia di Antigone, ovvero il dramma della scelta tra la necessità morale di rispettare la legge della polis (dello stato) e l'esigenza, non meno etica, di seguire norme non scritte di umana pietà.
Antigone, personaggio straordinario creato dal genio tragico di Sofocle, eroina purissima ed immortale, scelse di violare la legge codificata, dando sepoltura al cadavere del fratello; ma la scelta di Antigone portava in sé la conseguenza di una terribile pena,  punizione conosciuta ed accettata come giusta dalla fanciulla tebana.
Ora, se è questo che si studia a scuola, se questa è, o dovrebbe essere, la formazione culturale media degli italiani voluta  dallo stesso Ministero dell'istruzione, in continuità con il programma di Giovanni Gentile, come è possibile che nell'ambito delle nostre stesse istituzioni e nell'agone politico si possa disquisire in ordine all'applicazione o meno della sentenza di condanna stabilita definitivamente dalla Corte di Cassazione, nei confronti del senatore Silvio Berlusconi?
Non intendo assolutamente entrare nel merito della sentenza in questione, relativamente alla quale non conosco le risultanze istruttorie, né la motivazione della Suprema Corte; posso persino ammettere teoricamente  l'errore giudiziario e la persecuzione politica, tuttavia non posso concepire che chi ci governa deliberatamente chieda, voglia o pretenda, nel caso in questione, la disapplicazione della legge, con evidente detrimento del principio di uguaglianza dei cittadini.
Del resto, evidenzio,  riprendendo quanto asserito pocanzi, che il centrodestra ha sempre dato (anche giustamente) particolare rilievo alla nostra cultura , nonché ai principi informatori della nostra società,  ponendoli talvolta in antinomia con altre realtà giuridiche e sociali che ci sono estranee.
Tuttavia ritengo che la nostra cultura (anche e soprattutto giuridica),  così armoniosamente infusa nella Costituzione italiana, non  dovrebbe essere un abito elegante da indossare nelle occasioni diplomatiche, ma un habitus mentale fatto proprio da tutti noi, e soprattutto da chi, per effetto del nostro voto, a prescindere dallo schieramento, ci rappresenta.
 
Luigi Riccio
 
 
   

venerdì 9 agosto 2013

KYENGE E LA LEGA, OVVERO IL MALE ANTICO DELLA XENOFOBIA


Le ingiurie dettate da motivazioni razziali rivolte da diversi esponenti della lega  alla cittadina italiana, signora Kyénge, ministro della Integrazione, non rappresentano isolati momenti di idiozia individuale, ma si configurano come esternazione, sia pure estremistica, di una scuola di pensiero la cui profonda radice è l’egoismo.
Per comprenderlo è sufficiente riflettere sul contenuto etico-politico del programma stesso della lega, ben raffigurato dai suoi stessi simboli.
Nell’immaginario retorico post-risorgimentale il “carroccio” rappresentava l’aggregazione dei comuni italiani, unitisi per la difesa dei nostri patrii confini.
Nella realtà i comuni lombardi e toscani si erano uniti occasionalmente per difendere le loro singole autonomie, quelle stesse autonomie che hanno reso, per secoli, l’italia mercimonio delle grandi potenze.
Mentre al di qua delle Alpi, fiorentini e pisani si massacravano e le nostre microbiche repubbliche marinare si contendevano aree commerciali, in Europa nascevano i grandi imperi e  flotte destinate a scoprire nuovi continenti.
Così, di lì a poco, dopo essere stati terra di conquista di innumerevoli popolazioni barbariche, siamo stati asserviti agli  angioini, ai borboni e agli austriaci.
E’ il male endemico degli italiani, che si manifesta oggi in modo grottesco, ma non per questo meno preoccupante, nella ideologia leghista.
Al giovane Leopardi che  scriveva:

Chi la ridusse a tale? E questo è peggio,
Che di catene ha carche ambe le braccia;
Sì che sparte le chiome e senza velo
Siede in terra negletta e sconsolata,           
Nascondendo la faccia
Tra le ginocchia, e piange.
Piangi, che ben hai donde, Italia mia…

possiamo rispondere che siamo noi la causa dei nostri mali.
L’ Italia è stata sempre divisa dall’egoismo, lo sguardo miope degli italiani, sino al risorgimento, non ha saputo vedere oltre il confine del quartiere, delle mura cittadine, dalla regione; mai un sogno di fratellanza che andasse oltre.
Così, se vogliamo contrapporre valori a valori, ben si può parteggiare per iI Sacro romano impero e per Federico II di Svevia, il cui sogno era l’unità, la legge comune, la  giustizia e la tolleranza.
Nell’impero immaginato allora da Federico, ebrei, mussulmani e cattolici avrebbero avuto pari dignità e pari diritti, ed i delitti sarebbero stati perseguiti dallo Stato, come nelle democrazie moderne. Tra le mura dei comuni della Lega Lombarda, regnava invece l’autorità del signore, non della legge, e di lì ha poco sarebbero state emanate le prime norme razziali antisemite  e gli ebrei sarebbe stati rinchiusi nei ghetti.
Oggi la visione miope e ottusa di allora, attualizzata da una  moderna xenofobia, muove il pensiero, se di pensiero si vuole parlare, di una certa parte dei leghisti, che sono ben lungi dai valori della tolleranza e della integrazione, virtù etiche a loro ignote.  
Cosi in modo becero e ignorante, chi ha avuto solo la lungimiranza, pro domo sua, di annodarsi al collo una cravattina verde, può dare della scimmia ad una cittadina italiana, meritevole di aver vinto una borsa di studio e di essersi laureata in Italia in medicina ma, si badi, non accettabile per essere nata in Congo.   
Occorre, per questi episodi di vile e arrogante discriminazione, indignarsi e gridare forte il proprio dissenso, perché ricordiamoci  che il razzismo, sia pure se manifestato con il sorriso sulle labbra, magari scherzando prima e minimizzando poi, nasconde sempre il volto oscuro del male.

Luigi Riccio


domenica 16 giugno 2013

MEDIACONCILIAZIONE e linea programmatica del Governo

Abbiamo appreso che la linea programmatica del governo Letta prevede, tra le altre iniziative, il reingresso nel nostro sistema giudiziario (o paragiudiziario) della Mediaconciliazione obbligatoria.
Si ricorderà che la norma che aveva introdotto la conciliazione obbligatoria nel 2010 era stata bocciata dalla Corte Costituzionale per eccesso di delega; avvocati e giuristi ne avevano  denunciato allora vizi e lacune, rilevando come per molti aspetti quella disposizione di legge fosse incostituzionale, privando il cittadino della possibilità di immediato ricorso al giudice, non assicurando di fatto la difesa del cittadino da eventuali abusi, ponendo  a carico di quest'ultimo il costo gravoso della procedura.
Tuttavia, appare chiaro che i nostri governati di diverso colore, o di sbiadito uniforme colore, ritengono che, per risolvere l'endemico problema della giustizia civile, lo Stato non debba investire  risorse economiche per rafforzare il sistema giudiziario, ma demandare ad associazioni  private la risoluzione di buona parte dei contenziosi.
Una soluzione pilatesca alla quale dobbiamo abituarci.
E sia!!
In ogni caso auspico che, nell'elaborare i nuovo testo di legge sulla mediazione obbligatoria, il Governo tenga nella dovuta considerazione le censure mosse in allora dall' avvocatura, al fine di evitare un nuovo giudizio negativo della Corte Costituzionale.
Personalmente ritengo che la mediaconciliazione  possa evitare l'incostituzionalità solo a patto che sia gratuita; se peraltro lo fosse non ci sarebbe bisogno di renderla obbligatoria (sottraendola così dai molteplici dubbi di incostituzionalità), in quanto i cittadini, e gli avvocati con loro, vi accederebbero ben volentieri.
Purtroppo la struttura della conciliazione pensata dal legislatore del 2010 era troppo onerosa e financo inaccessibile per il cittadino privo di mezzi economici.
Succedeva infatti che le parti, accettato entrambe di sedersi al tavolo del mediatore, in caso di mancato accordo, dovevano comunque retribuire quest'ultimo per l'attività prestata.
Il compenso del mediatore era, il più delle volte, assai elevato e molto più gravoso rispetto alle spese di giustizia da versare alla cancelleria del tribunale, in sede contenziosa giudiziaria. 
Insomma, per riassumere il concetto con un'espressione dal sapore propagandistico, "la  giustizia deve essere gratis", nel senso che il cittadino deve poter accedere al tribunale, come ad un ospedale, senza costi, o con costi fissi predeterminati di entità ragionevole rispetto ai suoi redditi.
Prevedo comunque che così non sarà, le forti pressioni delle varie associazioni sorte al fine di far cassa, ben inserite politicamente, sapranno esercitare le giuste pressioni.
Staremo a vedere.  
 
Luigi Riccio  

mercoledì 24 aprile 2013

XXV APRILE

In occasione della festa della liberazione pubblico la poesia (che è più un'invettiva dettata dallo sdegno)  scritta da Piero Calamandrei in risposta ad un'affermazione del generale nazista Albert Kesserling condannato per crimini di guerra e poi  scarcerato nel 1952 per motivi di salute.
Il feldmaresciallo dopo la sua scarcerazione affermò che gli italiani avrebbero dovuto erigergli un monumento avendo egli operato in Italia per la salvaguardia delle città d'arte.
Kesserling organizzò, per delega a Kapler, l'eccidio delle fosse Ardeatine e promulgò il bando che porta il suo nome, con il quale, per contrastare l'attività partigiana, veniva disposta la rappresaglia contro i cittadini inermi; la conseguenza fu Marzabotto, Civitella, Sant' Anna di Stazzena e altre stragi. 
 
Eccidio di Civitella I tedeschi irruppero nelle case, aprendo il fuoco sugli abitanti a prescindere dal sesso o dall'età. L'episodio più truce si consumò nella chiesa, mentre si stava celebrando la Messa. Entrati nell'edificio sacro, i tedeschi divisero i fedeli in piccoli gruppi. Quindi, indossati grembiuli mimetici in gomma per non sporcarsi di sangue, li freddarono con dei colpi alla nuca. Eroico fu il gesto del sacerdote, don Alcide Lazzeri: costui, in quanto religioso, sarebbe stato risparmiato dai tedeschi, ma scelse di condividere la sorte degli sfortunati parrocchiani.
Compiuta la strage, i tedeschi incendiarono le case di Civitella, provocando così la morte anche di coloro che avevano disperatamente tentato di salvarsi nascondendosi nelle cantine o nelle soffitte. Solo pochi abitanti riuscirono a salvarsi dal massacro. Alla fine si contarono 244 morti: 115 a Civitella, 58 a Cornia e 71 a San Pancrazio 
 
Eccidio di Sant'Anna di Stazzena All'alba del 12 agosto '44, tre reparti di SS salirono a Sant'Anna mentre un quarto chiudeva ogni via di fuga a valle sopra il paese di Valdicastello. Alle sette il paese era circondato. Quando le SS giunsero a Sant'Anna, accompagnati da fascisti collaborazionisti che fecero da guide, gli uomini del paese si rifugiarono nei boschi per non essere deportati mentre donne, vecchi e bambini, sicuri che nulla sarebbe capitato loro, in quanto civili inermi, restarono nelle loro case.
In poco più di tre ore vennero massacrati 560 civili, in gran parte bambini, donne e anziani. I nazisti li rastrellarono, li chiusero nelle stalle o nelle cucine delle case, li uccisero con colpi di mitra e bombe a mano. La vittima più giovane, Anna Pardini, aveva solo 20 giorni. Sebbene fosse viva era gravemente ferita. A trovare la piccola fu una sorella che, miracolosamente superstite, la rinvenne tra le braccia della madre ormai morta
 
Strage di Marzabotto La mattina del 29 settembre, prima di muovere all'attacco dei partigiani, quattro reparti delle truppe naziste, comprendenti sia SS che soldati della Wehrmacht, accerchiarono e rastrellarono una vasta area di territorio compresa tra le valli del Setta e del Reno, utilizzando anche armamenti pesanti. Quindi dalle frazioni di Panico, di Vado, di Quercia, di Grizzana, di Pioppe di Salvaro e dalla periferia del capoluogo le truppe si mossero all'assalto delle abitazioni, delle cascine, delle scuole e fecero terra bruciata di tutto e di tutti.   Nella frazione di Casaglia di Monte Sole la popolazione atterrita si rifugiò nella chiesa di Santa Maria Assunta, raccogliendosi in preghiera. Irruppero i tedeschi, uccidendo con una raffica di mitragliatrice il sacerdote, don Ubaldo Marchioni, e tre anziani. Le altre persone, raccolte nel cimitero, furono mitragliate: 195 vittime, di 28 famiglie diverse tra le quali 50 bambini. Fra il 29 settembre e il 5 ottobre 1944, dopo sei giorni di violenze, il bilancio delle vittime civili si presentava spaventoso: circa 770 morti.
 
 
Su Piero Calamandrei, avvocato e giurista, ho scritto altri post.
Qui basta ricordare che è stato uno dei padri della nostra costituzione  e promotore delle norme scritte a tutela dei diritti fondamentali ed inviolabili della persona. 
 
  
 
 
 
 
 
 

Il MONUMENTO

Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
 ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.
Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.
Ma soltanto col silenzio del torturati
più duro d'un macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.
Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
  RESISTENZA.


 

sabato 13 aprile 2013

CANI ....POESIE E IMMAGINI

 
"Volgi gli occhi allo sguardo del tuo cane: puoi affermare che non ha un'anima?"
- VICTOR HUGO -

§§§

PABLO NERUDA
 
 
 
Il cane mi domanda e non rispondo.
Salta, corre nei campi e mi domanda senza parlare
e i suoi occhi son due domande umide,
due fiamme liquide interroganti
e non rispondo,
non rispondo perchè non so e niente posso dire.
In mezzo ai campi andiamo uomo e cane.
Luccicano le foglie come se qualcuno le avesse baciate ad una ad una,
salgono dal suolo tutte le arance a collocare piccoli planetari
in alberi rotondi come la notte e verdi,
e uomo e cane andiamo fiutando il mondo, scuotendo il trifoglio, per i campi del Cile,
fra le limpide dita di settembre.
Il cane si arresta,
corre dietro alle api, salta sull’acqua irrequieta, ascolta lontanissimi latrati,
orina su una pietra e porta la punta del suo muso a me, come un regalo.
Tenera impertinenza per palesare affetto!
E fu a quel punto che michiese, con gli occhi,
perchè ora è giorno,
perchè verrà la notte, perchè la primavera non portò nel suo cesto nulla
per cani vagabondi, ma inutili fiori,
fiori e ancora fiori.
Questo mi chiede il cane e non rispondo.
Andiamo avanti, uomo e cane, appaiati dal mattino verde,
dall’eccitante vuota solitudine in cui solo noi esistiamo,
perchè non esistono uccelli o fiori occulti,
ma profumi e gorgheggi per due compagni,
per due cacciatori compagni:
un mondo inumidito dalle distillazioni della notte,
un tunnel verde e poi una prateria,
una raffica di vento aranciato,
il sussurro delle radici,
la vita che cammina, respira, cresce,
e l’antica amicizia,
la gioia di essere cane e di essere uomo
tramutata in un solo animale
che cammina muovendo sei zampe
e una coda intrisa di rugiada.
 
 
 
Il mio cane è morto.

Lo sotterrai nel giardino
insieme ad una vecchia macchina ossidata.

Lì, non più sotto,
ne più sopra,
si unirà con me un giorno.
Ora ormai se ne è andato col suo pelame,
la sua maleducazione, il suo naso freddo.
Ed io, materialista che non crede
nel celeste cielo promesso
per nessun umano,
per questo cane o per ogni cane
credo nel cielo, sì, credo in un cielo
dove io non entrerò, però lui mi attende
ondulando la sua coda di ventaglio
perché io al giungere abbia amicizie.

Ahi, non dirò la tristezza sulla terra
di non averlo più per compagno
perché mai fu per me un servitore.
Ebbe verso me l’amicizia di un riccio
che conservava la sua sovranità,
l’amicizia di una stella indipendente
senza più intimità dell’essenziale,
senza esagerazioni:
non si arrampicava al mio vestiario
coprendomi di peli o di acari,
non strofinava contro il mio ginocchio
come altri cani ossessivi.

No, il mio cane mi guardava
dandomi l’attenzione necessaria,
l’attenzione necessaria
a far comprendere a un vanitoso
che essendo cane lui,
con quegli occhi, più puri dei miei,
perdeva il tempo, ma mi guardava
con lo sguardo che mi riservò
tutta la sua dolce, la sua pelosa vita,
la sua silenziosa vita,
vicino a me, senza mai importunarmi,
e senza chiedermi nulla.

Ahi quante volte volli avere coda
andando unito a lui per le rive
del mare, nell’Inverno di Isla Negra,
nella grande solitudine: in alto l’aria
trapassata di uccelli glaciali
e il mio cane che saltava, irsuto, colmo
di voltaggio marino in movimento:
il mio cane vagabondo e fiutante
inalberando la sua coda dorata
fronte a fronte all’Oceano e alla sua spuma.

Allegro, allegro, allegro
come i cani sanno essere felici,
senza nient’altro, con la tirannia
della natura sfrontata.
Non c’é addio al mio cane che è morto.
E non c’é né ci fu menzogna tra di noi.

Già se ne andò e lo interrai, e questo era tutto.
 
 
§§§
 
Ernest Hemingway
 

Margerita Yourcenar
 
Gabriele  D'Annunzio
 
 
 
 
George Simenon
 
Alberto Moravia
 
Lev Tostoj
 
Tomasi di Lampedusa
 
Virginia Woof
 
Emile Zola