E’ noto come le compagnie di
assicurazione in via stragiudiziale siano restie a liquidare il danno morale
relativamente alle lesioni di piccola entità.
Apoditticamente i liquidatori
assumono che la recente giurisprudenza di legittimità ne escluderebbe la
risarcibilità; nella migliore delle ipotesi eccepiscono che il danno da
sofferenza non risulta provato.
Si tratta nuovamente di una tesi errata e capziosa sostenuta a mero fine defatigatorio; comportamento che, in ogni caso da i suoi
frutti, atteso che per “sfinimento” e
per economia, molto spesso i danneggiati rinunciano ad agire in giudizio per vedersi riconosciuta
questa voce di danno, tenuto conto anche dell’entità modesta dei ristori.
In diritto le cose stanno
diversamente.
Non si può, in materia, non partire dalla nota sentenza della Corte di Cassazione a Sezioni Unite dell’
11 Novembre 2008 n. 26972 ed alle
successive sentenze di legittimità, le quali si sono pronunciate sulla vexata quaestio della “struttura” del danno non patrimoniale,
con particolare riferimento al danno morale ed esistenziale.
L’esistenza del danno da
sofferenza (danno morale), termine non inteso a descrivere una autonoma categoria di danno, ma a
rappresentare, sotto il profilo lessicale, un aspetto importante del più
complesso danno non patrimoniale, non è stato
certamente messo in dubbio dalle
Sezioni Unite
Infatti si legge nella nota
sentenza: “Nell’ambito della
categoria generale del danno non patrimoniale, la formula “danno morale” non
individua una autonoma sottocategoria del danno ma descrive, tra i vari
possibili danni non patrimoniali, un tipo di pregiudizio costituito dalla
sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sé considerata. Sofferenza la
cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini dell’esistenza
del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento.
La Corte esplicitamente
riconosce l’esistenza di un pregiudizio “da sofferenza” che deve essere
considerato e ristorato nella sua integrità.
Le Sezioni Unite condividono e
fanno propria la lettura, costituzionalmente orientata, data dalle sentenze n.
8827 e n. 8828/2003 all’art. 2059 c.c. (par. 2.2).
La lettura della sentenza delle
Sezioni Unite non ha introdotto, quindi,
elementi di novità nella parte in cui ammette la rilevanza di ogni
sofferenza, fisica, psichica, transitoria o permanente patite dalla vittima; in
questo senso, viene superata la figura del cosiddetto danno morale soggettivo
transeunte.
Dicono infatti le Sezioni Unite:
“La sofferenza morale, senza
ulteriori connotazioni in termini di durata, integra il pregiudizio non
patrimoniale. Deve trattarsi di un turbamento dell’anima, di un dolore
sofferto, che non abbia generato degenerazioni patologiche della sofferenza.”
Assolutamente non condivisibile,
in quanto illegittima, risulta dunque essere l’impostazione assunta dalle
compagnie di assicurazione che, uniformemente, si rifiutano di risarcire il
danno morale in presenza di lesioni micropermanenti; ciò soprattutto se si
considera che la Corte di Cassazione, Sez.III, con ordinanza del 17/09/2010
n.19816, ha espressamente riconosciuto la risarcibilità del danno morale anche
per le micropermanenti.
Assume la Corte :
“La parte danneggiata da un
comportamento illecito che oggettivamente presenti gli estremi del reato ha
diritto al risarcimento dei danni non patrimoniali, ai sensi dell’art. 2059
cod. civ., i quali debbono essere liquidati in unica somma, da determinarsi
tenendo conto di tutti gli aspetti che il danno non patrimoniale assume nel
caso concreto (sofferenze fisiche e psichiche; danno alla salute, alla vita di
relazione, ai rapporti affettivi e familiari, ecc.)”.
In punto prova del
danno morale è bene precisare che
la sofferenza derivante da una lesione fisica, sia pure di non grave entità può
essere provata con riferimento all’ “id quod plerumque accidit”, ovvero in modo
presuntivo, come del resto la
giurisprudenza di legittimità e di merito ha sempre riconosciuto.
In questo senso la richiamata
sentenza delle Sezioni Unite ha ribadito che, se pure il danneggiato
deve offrire la prova del danno lamentato, detta prova può essere data con ogni
mezzo, ivi comprese le presunzioni semplici.
Si legge infatti nella sentenza:
la “la prova presuntiva è destinata ad assumere particolare rilievo e potrà
costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice,
non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri”
E’ evidente che il giudicante
potrà evincere elementi di prova, in ordine alla sofferenza del danneggiato,
dal solo esame della certificazione attestante il protrarsi della malattia o
dalla circostanza che il lesionato si sia dovuto sottoporre a cure
fisioterapiche e riabilitative.
E’ infatti noto a tutti che da
una lesione fisica, sia pure di modesta entità derivi sempre, quale conseguenza
immediata, al di là del dato clinico, l’insorgenza di sofferenza fisica.
La distrazione del rachide
cervicale comporta, oltre che una riduzione fisiologica dei movimenti del capo
e delle spalle, capogiri, emicranie, sensi di nausea, dolore al collo ecc.
Da un punto di vista pratico, la
dimostrazione del danno morale si risolve di fatto, nella prova del danno
biologico e dei fatti che, sempre sotto il profilo del danno biologico, hanno
avuto luogo in seguito alle lesioni: periodi di degenza, cure, trattamenti
medici e fisioterapic (G.di P. di Bari n.8898/2010).
Il giudice può dunque sempre considerare provato il danno sulla sola scorta della documentazione prodotta in causa e
con ricorso al principio del “id oquod plerumque accidit” .
In ogni caso è bene sempre svolgere una minima attività istruttoria indicando al giudice dei soggetti, (il più delle volte parenti) che possano testimoniare sullo stato di malessere e sull'abbattimento morale patito dal lesionato, al massimo il giudice non ammetterà la prova ritenendo che il danno morale sia scontato.
Una volta chiarito, in via di
principio, che il danno da sofferenza debba essere oggetto di specifica
liquidazione al fine dell’ integrale ristoro del danno , occorre, fare qualche osservazione in ordine alle apparenti imitazioni che il CdA (artt.138-139) sembra disporre in ordine alle lesioni tabellate entro il 9%. Le norme stabiliscono infatti che la personalizzazione del danno non può eccedere il 20% oltre quanto liquidato in base alle tabelle.
In punto si è pronunciata la Corte
di Appello di Torino con la sentenza n. 1315/2009 del 5 Ottobre 2009
La Corte Torinese non condivide quella l’interpretazione
dottrinale secondo cui il danno da sofferenza, patito nel caso di lesioni al di
sotto del 9%, debba essere liquidato nel limite di un quinto (20%) del danno
biologico.
Infatti: ” La corte non
ritiene corretta la lettura di norme di diritto positivo elaborate in un
contesto storico e sistematico che si riferiva al solo danno alla vitalità
biologica medicalmente accertato, e non già al pregiudizio della integrità
morale della persona” (pag.58 della citata sentenza)
In buona sostanza la Corte
ritiene non applicabile la restrizione normativa del Codice delle Assicurazioni
in quanto la norma è precedente alla sentenza delle Sezioni Unite, in un
periodo in cui il danno morale era ritenuto autonoma categoria risarcitoria da
sommarsi al danno biologico.
In tal senso si è pronunciato
anche il Tribunale di Torino (sentenza emessa in data 17/3/09 dal Dott.
Ciccarelli): “Va osservato che qualora la
lesione biologica non superi il limite del 9% la valutazione e liquidazione del
danno da sofferenza mediante un aumento del valore punto, non è praticabile,
poiché tale valore, è fissato dalla legge.
E non è evidentemente sostenibile
che i valori siano fissati dal legislatore già tenendo conto della sofferenza;
poiché il consolidato orientamento della giurisprudenza di merito e di
legittimità era nel senso che la sofferenza dovesse essere ristorata “ a parte”
attraverso il riconoscimento del danno morale.
Ogni diversa interpretazione
presterebbe il fianco a censure di illegittimità costituzionale, in quanto precluderebbe, nei
casi rientranti nella previsione dell’art. 139 CdA, l’integrale ristoro del
danno alla persona.
D’altra parte non è plausibile,
a fronte di definizioni normative del danno biologico identiche (tali sono
quelle dell’art.138, 2° comma e dell’art. 139 2° CdA ) , che si ritenga escluso
da tale nozione il danno da sofferenza per le lesioni macropermanenti e lo si
ritenga invece incluso per le micropermanenti.
Né la più volte citata sentenza
delle Sezioni Unite definisce il danno non patrimoniale in modo diverso a
seconda dell’entità della lesione; al contrario, lo definisce in termini
unitari e comprensivi, sempre, del danno da sofferenza fisica e psichica ( la
cui entità e durata nel tempo, precisa la Corte, non assumono rilevanza ai fini
dell’esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento).
Alla luce di tali considerazioni
si ritiene che, anche nel caso di lesioni micropermanenti, possa ( non già
debba) esistere un pregiudizio da “sofferenza”, non incluso nella
liquidazione effettuata mediante i criteri dettati dall’ art. 139 CdA.
Tale pregiudizio consiste nel
patimento interiore causato dall’illecito: sia per il turbamento e per i disagi
che esso ha in concreto comportato, sia per le privazioni cui ha costretto la
vittima.
E la sua dimostrazione potrà
essere data mediante prova documentale, testimoniale o presuntiva, assumendo
proprio quest’ultima particolare rilievo, e potendo anzi costituire anche
l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice”.
Pertanto quando il danneggiato è in grado di provare di aver patito un danno da sofferenza morale o esistenziale di particolare rilevanza, il giudice potrà liquidare una somma che vada oltre al tetto del 20% su quanto liquidato per il danno biologico.
Si può fare il seguente esempio.
Se il danneggiato è un pianista o violinista dilettante ed ha subito una lesione ad un dito che non gli consente più di suonare, sarà risarcito per il danno biologico in base alle tabelle e per il danno da sofferenza morale ed esistenziale in via equitativa. Il giudice, per stabilire in modo equo l'importo del risarcimento dovrà tenere conto dell'importanza che assumeva per il danneggiato il suonare uno strumento, come questa sua attività si rifletteva nel suo "quotidiano" anche a livello sociale e relazionale.
In buona sostanza siccome ognuno di noi è diverso, ha le sue inclinazioni, le sue aspirazioni, le sue relazioni, è giusto che il risarcimento sia personalizzato perchè la sofferenza e l'impatto sulla vita privata familiare e relazionale non è uguale per tutti.
Al di là, dunque, delle rigide ingessatire pensate dai nostri legislatori per calmierare i risarcimenti, compito dell'avvocato sarà sempre quello di mettere in luce le singole situazioni, mentre spetterà al giudice coscienzioso apprezzarle ai fini del risarcimento.
Avv. Luigi Riccio