martedì 26 marzo 2013

DICHIARAZIONE UNIVERSALE DEI DIRITTI DEGLI ANIMALI E FESTEGGIAMENTI PASQUALI

 foto tratta dal fcebook "I randagi del Minervino Murge"

Mi sono già dilungato in altro post sull'insulsaggine delle tradizioni alimentari che in occasione delle feste sacre si trasformano in un massacro di animali.

Ora pubblico la Dichiarazione Universale dei diritti degli animali  proclamata il 15  ottobre 1978 presso la sede dell' UNESCO  a Parigi che con il Trattato di Amsterdam del 1997 e quello di Lisbona del 2009, sancisce i diritti degli animali, quali esseri senzienti e capaci di comprendere il dolore e la paura, di essere trattati secondo un codice etico condiviso universalmente .
 
Credo che dalla semplice lettura del trattato possa evincersi la illegalità del trattamento riservato ai cuccioli di pecora in occasione della Santa Pasqua  (in verde ho evidenziato gli aspetti salienti ed in contraddizione con la macellazione che festeggia la Resurrezione  ).
 

Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Animale

PREMESSA
Considerato che ogni animale ha dei diritti;
considerato che il disconoscimento e il disprezzo di questi diritti hanno portato e continuano a portare l' uomo a commettere crimini contro la natura e contro gli animali;
considerato che il riconoscimento da parte della specie umana del diritto all'esistenza delle altre specie animali costituisce il fondamento della coesistenza delle specie nel mondo;
considerato che genocidi sono perpetrati dall' uomo e altri ancora se ne minacciano;
considerato che il rispetto degli animali da parte degli uomini è legato al rispetto degli uomini tra loro;
considerato che l'educazione deve insegnare sin dall'infanzia a osservare, comprendere, rispettare e amare gli animali.
SI PROCLAMA:
Articolo 1
Tutti gli animali nascono uguali davanti alla vita e hanno gli stessi diritti all'esistenza.
Articolo 2
a) Ogni animale ha diritto al rispetto; b) l'uomo, in quanto specie animale, non può attribuirsi il diritto di sterminare gli altri animali o di sfruttarli violando questo diritto. Egli ha il dovere di mettere le sue conoscenze al servizio degli animali; c) ogni animale ha diritto alla considerazione, alle cure e alla protezione dell'uomo.
Articolo 3
a) Nessun animale dovrà essere sottoposto a maltrattamenti e ad atti crudeli; b) se la soppressione di un animale è necessaria, deve essere istantanea, senza dolore, ne angoscia.
Articolo 4
a) Ogni animale che appartiene a una specie selvaggia ha il diritto di vivere libero nel suo ambiente naturale terrestre, aereo o acquatico e ha il diritto di riprodursi; b) ogni privazione di libertà, anche se a fini educativi, è contraria a questo diritto.
Articolo 5
a) Ogni animale appartenente ad una specie che vive abitualmente nell'ambiente dell' uomo ha diritto di vivere e di crescere secondo il ritmo e nelle condizioni di vita e di libertà che sono proprie della sua specie; b) ogni modifica di questo ritmo e di queste condizioni imposta dall'uomo a fini mercantili è contraria a questo diritto.
Articolo 6
a) Ogni animale che l'uomo ha scelto per compagno ha diritto ad una durata della vita conforme alla sua naturale longevità ; b) l'abbandono di un animale è un atto crudele e degradante.
Articolo 7
Ogni animale che lavora ha diritto a ragionevoli limitazioni di durata e intensità di lavoro, ad un'alimentazione adeguata e al riposo.
Articolo 8
a) La sperimentazione animale che implica una sofferenza fisica o psichica è incompatibile con i diritti dell' animale sia che si tratti di una sperimentazione medica, scientifica, commerciale, sia di ogni altra forma di sperimentazione; b) le tecniche sostitutive devono essere utilizzate e sviluppate.
Articolo 9
Nel caso che l'animale sia allevato per l'alimentazione deve essere nutrito, alloggiato, trasportato e ucciso senza che per lui ne risulti ansietà' e dolore.
Articolo 10
a) Nessun animale deve essere usato per il divertimento dell' uomo; b) le esibizioni di animali e gli spettacoli che utilizzano degli animali sono incompatibili con la dignità dell'animale.
Articolo 11
Ogni atto che comporti l'uccisione di un animale senza necessità è un biocidio, cioè un delitto contro la vita.
Articolo 12
Ogni atto che comporti l'uccisione di un gran numero di animali selvaggi è un genocidio, cioè un delitto contro la specie; b) l'inquinamento e la distruzione dell'ambiente naturale portano al genocidio.
Articolo 13
a) L'animale morto deve essere trattato con rispetto; b) le scene di violenza di cui gli animali sono vittime devono essere proibite al cinema e alla televisione a meno che non abbiano come fine di mostrare un attentato ai diritti dell'animale.
Articolo 14
a) Le associazioni di protezione e di salvaguardia degli animali devono essere rappresentate a livello governativo; b) i diritti dell' animale devono essere difesi dalla legge come i diritti dell'uomo.

 

sabato 23 marzo 2013

GIORNATA MONDIALE DELLA POESIA

Ritengo che non si possa trascorrere la giornata mondiale della poesia  nella disattenzione, ovvero non dedicare almeno un minuto alla lettura di qualche verso.

Così pure trovo stimolante, in questa occasione,  ascoltare le parole di Eugenio Montale, sul linguaggio della poesia e la distinzione tra prosa e poesia, cliccando sul sito  youtube sotto indicato.
Per chi sa emozionarsi consiglio il video   dell'intervista del 1961 a  Giuseppe Ungaretti.
Il poeta a cui viene posta la domanda "come nasce la sua poesia" risponde con semplicità  toccante che non si sa come avvenga la creazione di un verso " .... avviene così, di un tratto, da una idea che ti tormenta ..."
http://www.youtube.com/watch?v=LSyeMUhPH64

 
Pubblico altresì alcune poesie che amo particolarmente e che mi accompagnano.
Chi ama la poesia sa bene che certi versi sono dentro di noi, hanno trovato un posto nella nostra anima e non se ne andranno più, così è anche per certa musica o per certi ricordi che compongono i nostri paesaggi interiori. 
 
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FEDERICO GARCIA LORCA

LAMENTO PER IGNACIO SÁNCHEZ MEJÍAS   (1935)

                                                              1
                                                  Il cozzo e la morte
Alle cinque della sera.
Eran le cinque in punto della sera.
Un bambino portò il lenzuolo bianco
alle cinque della sera.
Una sporta di calce già pronta
alle cinque della sera.
Il resto era morte e solo morte
alle cinque della sera.
Il vento portò via i cotoni
alle cinque della sera.
E l’ossido seminò cristallo e nichel
alle cinque della sera.
Già combatton la colomba e il leopardo
alle cinque della sera.
E una coscia con un corno desolato
alle cinque della sera.
Cominciarono i suoni di bordone
alle cinque della sera.
Le campane d’arsenico e il fumo
alle cinque della sera.
Negli angoli gruppi di silenzio
alle cinque della sera.
Solo il toro ha il cuore in alto!
alle cinque della sera.
Quando venne il sudore di neve
alle cinque della sera,
quando l’arena si coperse di iodio
alle cinque della sera,
la morte pose le uova nella ferita
alle cinque della sera.
Alle cinque della sera.
Alle cinque in punto della sera.
Una bara con ruote è il letto
alle cinque della sera.
Ossa e flauti suonano nelle sue orecchie
alle cinque della sera.
Il toro già mugghiava dalla fronte
alle cinque della sera.
La stanza s’iridava d’agonia
alle cinque della sera.
Da lontano già viene la cancrena
alle cinque della sera.
Tromba di giglio per i verdi inguini
alle cinque della sera.
Le ferite bruciavan come soli
alle cinque della sera.
E la folla rompeva le finestre
alle cinque della sera.
Alle cinque della sera.
Ah, che terribili cinque della sera!
Eran le cinque a tutti gli orologi!
Eran le cinque in ombra della sera!

2
Il sangue versato
Non voglio vederlo! Di’ alla luna che venga,
ch’io non voglio vedere il sangue
d’Ignazio sopra l’arena.
Non voglio vederlo! La luna spalancata.
Cavallo di quiete nubi,
e l’arena grigia del sonno
con salici sullo steccato.
Non voglio vederlo!
Il mio ricordo si brucia.
Ditelo ai gelsomini
con il loro piccolo bianco!
Non voglio vederlo! La vacca del vecchio mondo
passava la sua triste lingua
sopra un muso di sangue
sparso sopra l’arena,
e i tori di Guisando,
quasi morte e quasi pietra,
muggirono come due secoli
stanchi di batter la terra.
No.
Non voglio vederlo!
Sui gradini salì Ignazio
con tutta la sua morte addosso.
Cercava l’alba,
ma l’alba non era.
Cerca il suo dritto profilo,
e il sogno lo disorienta.
Cercava il suo bel corpo
e trovò il suo sangue aperto.
Non ditemi di vederlo!
Non voglio sentir lo zampillo
ogni volta con meno forza:
questo getto che illumina
le gradinate e si rovescia
sopra il velluto e il cuoio
della folla assetata.
Chi mi grida d’affacciarmi?
Non ditemi di vederlo!
Non si chiusero i suoi occhi
quando vide le corna vicino,
ma le madri terribili
alzarono la testa.
E dagli allevamenti
venne un vento di voci segrete
che gridavano ai tori celesti,
mandriani di pallida nebbia.
Non ci fu principe di Siviglia
da poterglisi paragonare,
né spada come la sua spada
né cuore così vero.
Come un fiume di leoni
la sua forza meravigliosa,
e come un torso di marmo
la sua armoniosa prudenza.
Aria di Roma andalusa
gli profumava la testa
dove il suo riso era un nardo
di sale e d’intelligenza.
Che gran torero nell’arena!
Che buon montanaro sulle montagne!
Così delicato con con le spighe!
Così duro con gli speroni!
Così tenero con la rugiada!
Così abbagliante nella fiera!
Così tremendo con le ultime
banderillas di tenebra!
Ma ormai dorme senza fine.
Ormai i muschi e le erbe
aprono con dita sicure
il fiore del suo teschio.
E già viene cantando il suo sangue:
cantando per maremme e praterie,
sdrucciolando sulle corna intirizzite,
vacillando senz’anima nella nebbia,
inciampando in mille zoccoli
come una lunga, scura, triste lingua,
per formare una pozza d’agonia
vicino al Guadalquivir delle stelle.
Oh, bianco muro di Spagna!
Oh, nero toro di pena!
Oh, sangue forte d’Ignazio!
Oh, usignolo delle sue vene!
No.
Non voglio vederlo!
Non v’è calice che lo contenga,
non rondini che se lo bevano,
non v’è brina di luce che lo ghiacci,
né canto né diluvio di gigli,
non v’è cristallo che lo copra d’argento.
No.
Io non voglio vederlo!!

3
Corpo presente
La pietra è una fronte dove i sogni gemono
senz’aver acqua curva né cipressi ghiacciati.
La pietra è una spalla per portare il tempo
Con alberi di lagrime e nastri e pianeti.
Ho visto piogge grigie correre verso le onde
alzando le tenere braccia crivellate
per non esser prese dalla pietra stesa
che scioglie le loro membra senza bere il sangue.
Perché la pietra coglie semenze e nuvole,
scheletri d’allodole e lupi di penombre,
ma non dà suoni, né cristalli, né fuoco,
ma arene e arene e un’altra arena senza muri.
Ormai sta sulla pietra Ignazio il ben nato.
Ormai è finita. Che c’è? Contemplate la sua figura:
la morte l’ha coperto di pallidi zolfi
e gli ha messo una testa di scuro minotauro.
Ormai è finita. La pioggia entra nella sua bocca.
Il vento come pazzo il suo petto ha scavato,
e l’Amore, imbevuto di lacrime di neve,
si riscalda in cima agli allevamenti.
Cosa dicono? Un silenzio putrido riposa.
Siamo con un corpo presente che sfuma,
con una forma chiara che ebbe usignoli
e la vediamo riempirsi di buchi senza fondo.
Chi increspa il sudario? Non è vero quel che dice!
Qui nessuno canta, né piange nell’angolo,
né pianta gli speroni né spaventa il serpente:
qui non voglio altro che gli occhi rotondi
per veder questo corpo senza possibile riposo.
Voglio veder qui gli uomini di voce dura.
Quelli che domano cavalli e dominano i fiumi:
gli uomini cui risuona lo scheletro e cantano
con una bocca piena di sole e di rocce.
Qui li voglio vedere. Davanti alla pietra.
Davanti a questo corpo con le redini spezzate.
Voglio che mi mostrino l’uscita
per questo capitano legato dalla morte.
Voglio che mi insegnino un pianto come un fiume
ch’abbia dolci nebbie e profonde rive
per portar via il corpo di Ignazio e che si perda
senza ascoltare il doppio fiato dei tori.
Si perda nell’arena rotonda della luna
che finge, quando è bimba dolente, bestia immobile;
si perda nella notte senza canto dei pesci
e nel bianco spineto del fumo congelato.
Non voglio che gli copran la faccia con fazzoletti
perché s’abitui alla morte che porta.
Vattene, Ignazio. Non sentire il caldo bramito.
Dormi, vola, riposa. Muore anche il mare!

4
Anima assente
Non ti conosce il toro né il fico,
né i cavalli né le formiche di casa tua.
Non ti conosce il bambino né la sera
perché sei morto per sempre.
Non ti conosce il dorso della pietra,
né il raso nero dove ti distruggi.
Non ti conosce il tuo ricordo muto
perché sei morto per sempre.
Verrà l’autunno con conchiglie,
uva di nebbia e monti aggruppati,
ma nessuno vorrà guardare i tuoi occhi
perché sei morto per sempre.
Perché sei morto per sempre,
come tutti i morti della Terra,
come tutti i morti che si scordano
in un mucchio di cani spenti.
Nessuno ti conosce. No. Ma io ti canto.
Canto per dopo il tuo profilo e la tua grazia.
L’insigne maturità della tua conoscenza.
Il tuo appetito di morte e il gusto della sua bocca.
La tristezza che ebbe la tua coraggiosa allegria.
Tarderà molto a nascere, se nasce,
un andaluso così chiaro, così ricco d’avventura.
Io canto la sua eleganza con parole che gemono
e ricordo una brezza triste negli ulivi.
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EUGENIO MONTALE DA "OSSI DI SEPPIA"

MEDITERRANEO

I
A vortice s’abbatte
sul mio capo reclinato
un suono d’agri lazzi.
Scotta la terra percorsa
da sghembe ombre di pinastri,
e al mare là in fondo fa velo
più che i rami, allo sguardo, l’afa che a tratti erompe
dal suolo che si avvena.
Quando più sordo o meno il ribollio dell’acque
che s’ingorgano
accanto a lunghe secche mi raggiunge:
o è un bombo talvolta ed un ripiovere
di schiume sulle rocce.
Come rialzo il viso, ecco cessare
i ragli sul mio capo; e via scoccare
verso le strepeanti acque,
frecciate biancazzurre, due ghiandaie.


II
Antico (mare), sono ubriacato dalla voce
ch'esce dalle tue bocche quando si schiudono
come verdi campane e si ributtano
indietro e si disciolgono.
La casa delle mie estati lontane,
t'era accanto, lo sai,
là nel paese dove il sole cuoce
e annuvolano l'aria le zanzare.
Come allora oggi in tua presenza impietro,
mare, ma non piú degno
mi credo del solenne ammonimento
del tuo respiro. Tu m'hai detto primo
che il piccino fermento
del mio cuore non era che un momento
del tuo; che mi era in fondo
la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso
e insieme fisso:
e svuotarmi cosí d'ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle sponde
tra sugheri alghe asterie
le inutili macerie del tuo abisso.

III
Scendendo qualche volta Back
gli aridi greppi
ormai divisi dall'umoroso
Autunno che li gonfiava,
non m'era più in cuore la ruota
delle stagioni e il gocciare
del tempo inesorabile;
ma bene il presentimento
di te m'empiva l'anima,
sorpreso nell'ansimare
dell'aria, prima immota,
sulle rocce che orlavano il cammino.
Or, m'avvisavo, la pietra
voleva strapparsi, protesa
a un invisibile abbraccio;
la dura materia sentiva
il prossimo gorgo, e pulsava;
e i ciuffi delle avide canne
dicevano all'acque nascoste,
scrollando, un assentimento.
Tu vastità riscattavi
anche il patire dei sassi:
pel tuo tripudio era giusta
l'immobilità dei finiti.
Chinavo tra le petraie,
giungevano buffi salmastri
al cuore; era la tesa
del mare,un giuoco di anella.
Con questa gioia precipita
dal chiuso vallotto alla spiaggia
la spersa pavoncella.

IV
Ho sostato talvolta nelle grotte
che t'assecondano, vaste
o anguste, ombrose e amare.
Guardati dal fondo gli sbocchi
segnavano architetture
possenti campite di cielo.
Sorgevano dal tuo petto
rombante aerei templi,
guglie scoccanti luci:
una città di vetro dentro l'azzurro netto
via via si discopriva da ogni caduco velo
e il suo rombo non era che un susurro.
Nasceva dal fiotto la patria sognata.
Dal subbuglio emergeva l'evidenza.
L'esiliato rientrava nel paese incorrotto.
Così, padre, dal tuo disfrenamento
si afferma, chi ti guardi, una legge severa.
Ed è vano sfuggirla: mi condanna
s'io lo tento anche un ciottolo
róso sul mio cammino,
impietrato soffrire senza nome,
o l'informe rottame
che gittò fuor del corso la fiumara
del vivere in un fitto di ramure e di strame.
Nel destino che si prepara
c'è forse per me sosta,
niun'altra minaccia.
Questo ripete il flutto in sua furia incomposta,
e questo ridice il filo della bonaccia.

V
Giunge a volte, repente,
un'ora che il tuo cuore disumano
ci spaura e dal nostro si divide.
Dalla mia la tua musica sconcorda,
allora, ed è nemico ogni tuo moto.
In me ripiego, vuoto
di forze, la tua voce pare sorda.
M'affisso nel pietrisco
che verso te digrada
fino alla ripa acclive che ti sovrasta,
franosa, gialla, solcata
da strosce d'acqua piovana.
Mia vita è questo secco pendio,
mezzo non fine, strada aperta a sbocchi
di rigagnoli, lento franamento.
È dessa, ancora, questa pianta
che nasce dalla devastazione
e in faccia ha i colpi del mare ed è sospesa
fra erratiche forze di venti.
Questo pezzo di suolo non erbato
s'è spaccato perché nascesse una margherita.
In lei tìtubo al mare che mi offende,
manca ancora il silenzio nella mia vita.
Guardo la terra che scintilla,
l'aria è tanto serena che s'oscura.
E questa che in me cresce
è forse la rancura
che ogni figliuolo, mare, ha per il padre.

VI
Noi non sappiamo quale sortiremo
domani, oscuro o lieto;
forse il nostro cammino
a non tócche radure ci addurrà
dove mormori eterna l'acqua di giovinezza;
o sarà forse un discendere
fino al vallo estremo,
nel buio, perso il ricordo del mattino.
Ancora terre straniere
forse ci accoglieranno: smarriremo
la memoria del sole, dalla mente
ci cadrà il tintinnare delle rime.
Oh la favola onde s'esprime
la nostra vita, repente
si cangerà nella cupa storia che non si racconta!
Pur di una cosa ci affidi,
padre, e questa è: che un poco del tuo dono
sia passato per sempre nelle sillabe
che rechiamo con noi, api ronzanti.
Lontani andremo e serberemo un'eco
della tua voce, come si ricorda
del sole l'erba grigia
nelle corti scurite, tra le case.
E un giorno queste parole senza rumore
che teco educammo nutrite
di stanchezze e di silenzi,
parranno a un fraterno cuore
sapide di sale greco.

VII
Avrei voluto sentirmi scabro ed essenziale
siccome i ciottoli che tu volvi,
mangiati dalla salsedine;
scheggia fuori del tempo, testimone
di una volontà fredda che non passa.
Altro fui: uomo intento che riguarda
in sé, in altrui, il bollore
della vita fugace - uomo che tarda
all'atto, che nessuno, poi, distrugge.
Volli cercare il male
che tarla il mondo, la piccola stortura
d'una leva che arresta
l'ordegno universale; e tutti vidi
gli eventi del minuto
come pronti a disgiungersi in un crollo.
Seguìto il solco d'un sentiero m'ebbi
l'opposto in cuore, col suo invito; e forse
m'occorreva il coltello che recide,
la mente che decide e si determina.
Altri libri occorrevano
a me, non la tua pagina rombante.
Ma nulla so rimpiangere: tu sciogli
ancora i groppi interni col tuo canto.
Il tuo delirio sale agli astri ormai.

VIII
Potessi almeno costringere
in questo mio ritmo stento
qualche poco del tuo vaneggiamento;
dato mi fosse accordare
alle tue voci il mio balbo parlare: -
io che sognava rapirti
le salmastre parole
in cui natura ed arte si confondono,
per gridar meglio la mia malinconia
di fanciullo invecchiato che non doveva pensare.
Ed invece non ho che le lettere fruste
dei dizionari, e l'oscura
voce che amore detta s'affioca,
si fa lamentosa letteratura.
Non ho che queste parole
che come donne pubblicate
s'offrono a chi le richiede;
non ho che queste frasi stancate
che potranno rubarmi anche domani
gli studenti canaglie in versi veri.
Ed il tuo rombo cresce, e si dilata
azzurra l'ombra nuova.
M'abbandonano a prova i miei pensieri.
Sensi non ho; né senso. Non ho limite.

IX
Dissipa tu se lo vuoi
questa debole vita che si lagna,
come la spugna il frego
effimero di una lavagna.
M'attendo di ritornare nel tuo circolo,
s'adempia lo sbandato mio passare.
La mia venuta era testimonianza
di un ordine che in viaggio mi scordai,
giurano fede queste mie parole
a un evento impossibile, e lo ignorano.
Ma sempre che traudii
la tua dolce risacca su le prode
sbigottimento mi prese
quale d'uno scemato di memoria
quando si risovviene del suo paese.
Presa la mia lezione
più che dalla tua gloria
aperta, dall'ansare
che quasi non dà suono
di qualche tuo meriggio desolato,
a te mi rendo in umiltà. Non sono
che favilla d'un tirso. Bene lo so: bruciare,
questo, non altro, è il mio significato.
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SERGEJ   ESENIN

CONFESSIONE DI UN TEPPISTA

 Non a tutti è dato cantare,
E non tutti possono cadere come una mela 

Sui piedi degli altri. 
Questa è la più grande confessione, 
Che mai possa fare un teppista . 

Io vado a bella posta spettinato, 
Un lume sulle spalle è il mio capo. 
Mi piace rischiarare nelle tenebre 
L’autunno spoglio delle vostre anime. 
E mi piace quando una sassaiola di ingiurie 
Mi vola contro, come grandine di fitta bufera, 
Solo allora stringo più forte tra le mani 
La folta chioma dei miei capelli.

È così dolce allora ricordare
Lo stagno erboso e il suono rauco dell’ontano, 
Che da qualche parte vivono per me padre e madre, 
Che ignorano tutti i miei versi, 
E che a loro sono caro come il campo e la carne, 
Come la pioggia fine che accarezza il grano verde a primavera. 
Con le loro forche verrebbero a infilzarvi 
Per ogni vostro grido che mi affligge. 

Miei poveri genitori contadini! 
Voi, di sicuro, siete imbruttiti, 
E temete ancora Dio e gli acquitrini. 
Oh, se almeno poteste comprendere, 
Che vostro figlio in Russia 
È il primo tra i poeti! 
Non vi si raggelava il cuore per lui, 
Quando le gambe nude 
Immergeva nelle pozzanghere autunnali? 
Ora egli porta il cilindro 
E calza scarpe di coppale. 

Ma vive in lui ancora la frenesia 
Del monello di campagna. 
Ad ogni mucca sull’insegna di macelleria 
Da lontano fa un inchino. 
E incontrando in piazza i vetturini, 
Sente ancora l’odore del letame dei campi, 
Ed è pronto a reggere la coda d’ogni cavallo, 
Come fosse uno strascico nuziale. 

Amo la patria! 
Amo molto la patria! 
Anche con la sua tristezza di salice rugginoso. 
Adoro i grugni infangati dei maiali 
E nel silenzio della notte, la voce limpida dei rospi. 
Sono malato di ricordi d'infanzia, 
Sogno delle sere d’aprile la nebbia e l’umido. 
Come per scaldarsi alle fiamme del tramonto 
S’è accoccolato il nostro acero. 
Ah, salendo sui suoi rami quante uova, 
Dai nidi ho rubato ai corvi! 
È lo stesso d’un tempo, con la verde cima? 
È sempre forte la sua corteccia come prima? 

E tu, mio amato, 
Mio fedele cane pezzato! 
La vecchiaia ti ha reso rauco e cieco 
Vai per il cortile trascinando la coda penzolante, 
E non annusi più il portone e la stalla. 
O come mi è cara quella birichinata, 
Quando si rubava una crosta di pane alla mamma, 
e a turno la mordevamo come due fratelli. 

Io sono sempre lo stesso. 
Con lo stesso cuore. 
Simili a fiordalisi nella segale fioriscono gli occhi nel viso. 
Stendendo stuoie dorate di versi, 
Vorrei dirvi qualcosa che vi tocchi. 

Buona notte! 
A voi tutti buona notte! 
Più non tintinna nell’erba la falce del crepuscolo 
Oggi avrei una gran voglia di pisciare 
Dalla mia finestra sulla luna.
Una luce azzurra, una luce così azzurra! 

Così che anche morire non dispiace. 
Non m’importa, se ho l’aria d’un cinico 
Che si è appeso una lanterna al culo! 

Mio buon vecchio e sfinito Pegaso, 
M’occorre davvero il tuo morbido trotto? 
Io sono venuto come un maestro severo, 
A cantare e celebrare i topi. 
Come un agosto, la mia testa, 
Versa vino di capelli in tempesta.
 

Voglio essere una gialla vela 
Verso il paese per cui navighiamo.
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PABLO NERUDA

SE TU MI DIMENTICHI

Voglio che tu sappia
Una cosa.
Tu sai com’è questa cosa:
se guardo
la luna di cristallo, il ramo rosso
del lento autunno alla mia finestra,
se tocco
vicino al fuoco
l’impalpabile cenere
o il rugoso corpo della legna,
tutto mi conduce a te,
come se ciò che esiste
aromi, luce, metalli,
fossero piccole navi che vanno
verso le tue isole che m’attendono.

Orbene,
se a poco a poco cessi di amarmi
cesserò d’amarti poco a poco.
"Se d’improvviso
mi dimentichi,
non cercarmi,
chè già ti avrò dimenticata"

Se consideri lungo e pazzo
il vento di bandiere
Che passa per la mia vita
e ti decidi
a lasciarmi sulla riva
del cuore in cui ho le radici,
pensa
che in quel giorno,
in quell’ora,
leverò in alto le braccia
e le mie radici usciranno
a cercare altra terra.

Ma
se ogni giorno,
ogni ora
senti che a me sei destinata
con dolcezza implacabile.
Se ogni giorno sale
alle tue labbra un fiore a cercarmi,
ahi, amor mio, ahi mia,
in me tutto quel fuoco si ripete,
in me nulla si spegne né si dimentica,
il mio amore si nutre del tuo amore, amata,
e finchè tu vivrai starà tra le tue braccia
senza uscire dalle mie.


Luigi  Riccio

mercoledì 13 marzo 2013

L'ONORE DEGLI ITALIANI - LA VICENDA DEI MARO'

  Ho appreso la notizia del mancato rientro in India, per disposizione della Farnesina, dei due nostri marò,  con indignazione e rabbia.
Come cittadino italiano non posso che provare vergogna.
L'Italia ha dato prova un'altra volta di non rispettare la parola data.
E' fuor di dubbio che l'India non abbia giurisdizione relativamente alla morte dei due pescatori, avvenuta in acque internazionali; tuttavia questa considerazione  non giustifica affatto il comportamento del nostro governo che istituzionalmente ha violato  apertamente i propri impegni.
Il rispetto della parola, che spesso assume forme rituali come il giuramento,  è principio etico universale, finalizzato ad ottenere, nel contesto sociale, l'affidamento dei terzi. Venire meno agli impegni ufficialmente acclarati comporta perdita di credibilità e di stima da pparte degli altri; l'Italia, oggi più di ieri, non ne ha certo bisogno.
Rispettare la propria parola è condizione imprescindibile dell'onorabilità; lo è sempre stato, ed è principio profondamente radicato nella nostra cultura. 
Ancora oggi, a distanza di duemiladuecentocinquanta dai fatti, i nostri figli a scuola hanno l'oportunità di conoscere, leggendo Tito Livio,   la leggenda del console romano Marco Attilio Regolo, che ben rappresenta il pensiero romano in ordine al concetto di onore.   
Regolo, prigioniero a Cartagine, ebbe il permesso di tornare a Roma per ottenere dai suoi cittadini l'interruzione della guerra. Se avesse fallito sarebbe dovuto tornare a Cartagine per essere giustiziato. Il console diede la sua parola di romano; sarebbe tornato.
Regolo non perorò la pace, anzi infervorò gli animi dei sui cittadini affinchè portassero a termine la guerra, poi, rispettando il suo impegno, tornò a Cartagine. ove subi un'orrenda morte. 
Non pretendiamo tanto.
Tuttavia noi italiani possiamo esigere, se non altro per rispetto ai nostri caduti del Carso, ai nostri alpini  della brigata Julia, e a tanti altri, che due nostri militari che sulla divisa con le  mostrine hanno cucito il tricolore, rispettino la loro parola.
Ma come possiamo, a ben pensarci, pretendere che due ragazzi sentano dentro di loro il desiderio di essere di esempio agli altri, portando con dignità il peso di una temporanea detenzione ingiusta (giurisdizionalmente ingiusta), quando è proprio dalle nostre istituzioni che giunge il cattivo esempio, quando è il nostro Ministero a violare un accordo preso pochi giorni prima.
Figura da pagliacci. 
Ecosì, anche per via di ulteriori nostri comportamenti, a dir poco folcloristici e tipizzanti,  meritiamo all'estero la considerazione che, al di là dei sorrisi diplomatici, gli altri hanno di noi.
 
Luigi Riccio 

sabato 2 marzo 2013

DANTE E IL DIRITTO AL LAVORO

La RAI 2 ha mandato in onda  la prima di dodici serate dedicate alla  lectura dantis di Roberto Benigni. Si tratta della registrazione dello stettacolo "Tutto Dante"  che si è svolto in piazza Santa Croce a Firenze l'estate scorsa.
Non c'è che dire;  nessuno come Benigni sa farci amare  il Sommo Poeta.
Esegeti e filologi potrebbero, con maggiore professionalità,  scomporre e ricomporre i versi di Dante  al fine di una ricostruzione sintattica e parafrasistica più consona al nostro impoverito linguaggio, ma nessuno di loro saprebbe darci, oltre la  comprensione del testo, la chiave di lettura spirituale che ci offre Benigni.
Non c'è caratteristica  o valore intrinseco del verso dantesco che  Benigni non sappia esaltare e trasmetterci atraverso la sua emozione, che diventa immediatamente la nostra.
Benigni, a mio avviso,  prima di  commuoverci con la sua composta  recitazione, sa avvincerci già solo attraverso la spiegazione dell'epica dantesca; egli sa, tramite le sue semplici ma  infervorate  analisi del testo, illustrarci il pensiero etico-politico  di Dante. E il pensiero di Dante è grande e bello come i suoi versi.
Cosa colpisce dunque, della morale dantesa, nell'undicesimo canto?
Il significato e l'avvaloramento metafisico che il Poeta da al "LAVORO UMANO" .
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"Filosofia", mi disse, "a chi la ’ntende,
nota, non pure in una sola parte,
99come natura lo suo corso prende

dal divino ’ntelletto e da sua arte;
e se tu ben la tua Fisica note,
102tu troverai, non dopo molte carte,

che l’arte vostra quella, quanto pote,
segue, come ’l maestro fa ’l discente;
105sì che vostr’arte a Dio quasi è nepote.

Da queste due, se tu ti rechi a mente
lo Genesì dal principio, convene
108prender sua vita e avanzar la gente;

Parafrasi:
la filosofia dimostra non soltanto in un solo punto, come la natura ha origine dalla mente e dall’opera di Dio; e se tu leggi con attenzione la Fisica (di Aristotile), che conosci bene, troverai, dopo non molte pagine, che l’operato umano imita, per quanto può, la natura, come l’alunno imita il maestro; tanto che il vostro lavoro è quasi nipote di Dio. Se richiami alla tua memoria l’inizio del libro della Genesi, vedrai che è proprio dalla  natura e dal lavoro (arte)  che gli uomini devono trarre i mezzi per vivere e migliorare le proprie condizioni.
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Il lavoro è dunque uno dei valori etici che maggirmente avvicina l'uomo a Dio.
Come Dio attraverso il lavoro ha compiuto la "Creazione", così l'uomo, per mezzo della sua arte rinnova quotidianamente l'opera di Dio (ricordiamo che nella Firenze del 300 le congregazioni delle arti e mestieri riunivano i lavoratori artigiani ed i commercianti).
Per Dante,  il lavoro e la costruzione del mondo attraverso di esso è  l'attività più nobile dell'uomo, tanto da assimilarlo a Dio.
Se così è, e non ne dubitiamo, questa facoltà e prerogativa dell'uomo, al di fuori della metafisica e nel campo giuridico, non può che diventare "ius gentium", diritto universale di tutti i popoli, come la libertà e l'uguaglianza. Anche perchè, pragmaticamente, senza lavoro non può esserci  nè libertà, nè uguaglianza.
In questo senso,  ben si attaglia la presentazione del Canto XI dell'Inferno, con la trasmissione dedicata alla lettura dei primi articoli della Costituzione Italiana, condotta magistralmente dallo stesso Benigni il quale, con non minore patos,  ci ha spiegato meglio di un giurista il significato e l'importanza degli articoli 1 e 4, pensati e codificati dall'Assemblea Costituente a tutela del diritto  al lavoro. 

Luigi Riccio